Tommaso d’Aquino commentatore di Aristotele

Riflessioni metafisiche sul rischio del monismo

 

Aquinas commentator on Aristotle

Metaphysical reflections on the risk of monism

 

Francesco Luigi Gallo

Instituto Teológico Cosentino “Redemptoris Custos”

Pontificia Facultad Teológica de la Italia Meridional, Nápoles, Italia

gfrancescoluigi@gmail.com

 

 

DOI: https://doi.org/10.53439/stdfyt53.27.2024.27-48

 

Abstract: In questo contributo tenterò di rispondere ad una domanda fondamentale e assai complessa: la concezione di Dio come Esse Ipsum Subsistens rischia una deriva verso il monismo parmenideo? L’indagine verterà dapprima sul superamento di Aristotele della visione parmenidea e poi si concentrerà sulla metafisica dell’essere di Tommaso d’Aquino che, se correttamente intesa, non rischia affatto una deriva verso il monismo ontologico. Saranno infatti presentati alcuni passi che comprovano come il concetto centrale della concezione di Tommaso, quello di partecipazione, garantisca proprio dal rischio del monismo, a patto che si intenda la presenza di Dio negli enti non in un senso quantitativo.

 

Parole chiave: Parmenide, Aristotele, Tommaso d’Aquino, essere, atto, Dio, metafisica, enti

 

Abstract: In this contribution I will try to answer a fundamental and very complex question: does the conception of God as Esse Ipsum Subsistens risk a drift towards Parmenidean monism? The investigation will first focus on Aristotle’s overcoming of the Parmenidean vision and then will focus on the metaphysics of being of Thomas Aquinas which, if correctly understood, does not risk a drift towards ontological monism at all. In fact, some passages will be presented that demonstrate how the central concept of Thomas’ conception, that of participation, guarantees precisely from the risk of monism, provided that the presence of God in entities is understood not in a quantitative sense.

 

Keywords: Parmenides, Aristotle, Thomas Aquinas, being, act, God, metaphysics, entities

 

Recibido: 16/02/22

Aceptado: 08/07/22

 

Introduzione

 

Sono già state rilevate e indagate innumerevoli volte, e da diverse prospettive, sia le motivazioni più profonde della predilezione dell’Aquinate per lo Stagirita (Livi, 1997, p. 79) sia i profondissimi sviluppi filosofici dei concetti metafisici aristotelici realizzati da Tommaso (Gilson, 2007, pp. 71-111), e quindi non ripeterò in questa sede riflessioni già magistralmente affrontate da illustri studiosi. Tuttavia c’è stata una voce dissidente, sebbene autorevolissima, cioè quella di E. Berti il quale non ha certo dubbi sulla grandezza dell’Aquinate, ma allo stesso tempo sembra non riuscire a cogliere l’effettiva novità della svolta metafisica di Tommaso. La posizione di Berti ha dunque il notevole vantaggio di consentirmi di ritornare a riflettere su alcuni aspetti della svolta metafisica di Tommaso e sull’effettivo superamento – pur nell’ottica della continuità – del pensiero aristotelico. Il punto di partenza o, meglio, i punti di partenza dai quali è opportuno far iniziare queste riflessioni sono senza dubbio le tre domande poste da Berti al termine di un suo famoso studio intitolato San Tommaso commentatore di Aristotele (2009, pp. 155-166):

1. “È necessario per chi ammette la Creazione (e ammettere la Creazione non si discute, anch’io l’ammetto) considerare Dio come ipsum esse?”;

2. “Siamo sicuri che qualora concepiamo Dio come esse ipsum, da questa concezione non derivino conseguenze incompatibili con la Creazione?”;

3. “Essere è veramente il nome più adeguato per parlare di Dio? O non sarebbe meglio usare altri nomi che esprimono, a mio modo di vedere, perfezioni maggiori come ad esempio Vita, Pensiero, Spirito, Amore?”.

 

L’aver posto tali domande riconferma senza dubbio la vitalità filosofica dello spirito di Berti in linea con la sua concezione della filosofia intesa come un domandare radicale, e mostra, altresì, la presenza fortissima nello studioso di un afflato teoretico certamente non trascurabile e che lo stesso Berti ammette in conclusione del suo studio: “Naturalmente questo discorso richiede un interesse che vada al di là di quello puramente storico di vedere come san Tommaso commenta Aristotele. È un interesse di ordine speculativo, di ordine filosofico”.

Tuttavia, seppure lo studioso riconosca che tutta la questione vada affrontata in chiave speculativa, sembra però non riuscire in questo intento. Egli resta fatalmente ancorato ad una prospettiva che non rende ragione dell’assoluta novità della svolta metafisica di Tommaso. La piena comprensione dell’operazione tomista, infatti, avrebbe sicuramente evitato a Berti di porre le tre domande in questione, le quali dimostrano tutti i limiti di quei tentativi di interpretazione di Tommaso che non riescono ad astrarre dalla cornice dell’aristotelismo entro la quale la metafisica dell’Aquinate sicuramente trova ispirazione, ma entro la quale, altrettanto certamente,non si esaurisce.

Da queste preliminari riflessioni emerge la validità di quella banale, ma non scontata, considerazione secondo cui Tommaso non è Aristotele e il tomismo non è una particolare forma di aristotelismo. Un’ultima considerazione preliminare si rende necessaria prima di passare all’analisi delle tre domande poste dallo studioso. Ne La metafisica di S. Tommaso d’Aquino e i suoi interpreti Mondin (2013) ci offre una chiara esposizione sia della posizione di Berti sia dei suoi limiti (storici e teoretici) in essa presenti. Innanzitutto è bene ricordare che a Mondin non sfugge l’intento dello studioso che è quello di “fornire una versione aristotelica del pensiero metafisico dell’Aquinate” (p. 133). Ancora Mondin evidenzia un altro aspetto, forse quello più filosoficamente interessante, della posizione di Berti:

 

Berti ammette che “la nuova concezione dell’essere come actus essendi è il contributo originale di Tommaso, grazie al quale egli può operare una sintesi tra Aristotele e il neoplatonismo”. Egli però accusa il tomismo esistenziale di Gilson e Fabro di esporsi al pericolo del monismo.

 

Giustamente Mondin osserva che il termine “partecipazione” è molto pericoloso se preso alla lettera e in senso quantitativo (come se partecipare volesse dire “avere una parte dell’essere”), ma diventa particolarmente efficace se inteso in senso non più quantitativo ma qualitativo (partecipare vuol dire, in questo secondo senso, “possedere in modo ‘particolare’, ‘limitato’, ‘imperfetto’, quella perfezione che nell’esse ipsumsi trova in modo totale, illimitato, perfetto” (p. 136). L’analisi critica della posizione di Berti fatta da Mondin si arresta però a questo punto. Certamente già queste sintetiche ma puntuali osservazioni risultano sufficienti per insinuare il dubbio sulla validità dell’interpretazione di Berti, ma tuttavia non sono in grado di problematizzarla fino in fondo a partire dai testi stessi dell’Aquinate, ed è proprio questo che mi propongo di fare in questo lavoro.

 

Davvero la metafisica dell’essere di Tommaso rischia la deriva monista?

 

Nell’undicesima aporia, definita dallo stesso Aristotele come la “difficoltà che di tutte è tanto più difficile da studiare”, lo Stagirita pone il problema della sostanzialità dell’essere e dell’uno:

Ma la difficoltà che di tutte è tanto la più difficile da studiare quanto la più necessaria al fine di conoscere la verità è se l’essere e l’uno siano mai sostanze degli enti, e se ciascuno di essi, senza essere alcunché d’altro, sia, il secondo l’uno e il primo l’essere, o se si debba ricercare che cosa mai siano l’essere e l’uno sul presupposto che sono propri di un’altra natura fungente da sostrato. (Metaph., I, b, 1001a4-8)

 

Se l’essere e l’uno fossero sostanze allora non esisterebbe nulla all’infuori dell’essere e dell’uno: “giacché fuori dell’essere –come afferma Parmenide– non vi è nulla e nell’essere tutte le cose costituiscono un’unità” (Metaph., I, b, 1001a4-8)[1], ma ciò è in palese contraddizione con quanto possiamo quotidianamente osservare empiricamente. Dell’affermazione della multivocità dell’essere Aristotele non dà alcuna dimostrazione, perché:

 

[essa] ridà una di quelle verità (la prima e più originaria) di cui è impossibile strutturalmente il darsi di una dimostrazione vera e propria (di una dimostrazione, cioè, che ripeta la propria validità da principi ulteriori). Essa risulta vera di verità immediata e trae la garanzia della propria validità non da altro che dalla semplice evidenza costatativa, ossia da un vedere che le cose stanno così e non in modo differente. (Reale, 2008a, pp. 411-412)

 

Il principio della multivocità dell’essere, che rappresenta “la base dell’ontologia” dello Stagirita (p. 411), rispettoso della varietà della realtà e della sua dignità ad ogni livello (fisico e metafisico) garantisce alla posizione aristotelica di non incorrere nelle pericolose contraddizioni che il monismo eleatico custodisce e nasconde nel suo seno. Stando alle riflessioni di Berti la metafisica dell’essere di Tommaso rischierebbe di ricadere nel monismo eleatico (andando incontro a tutte le contraddizioni che tale deriva comporta) dato che, com’è ben noto, il vertice della metafisica tomista è Dio inteso come Esse Ipsum Subsistens. Questa “affermazione assoluta” (Gilson, 1947, p. 45), Dio è il suo stesso essere, sta a significare emblematicamente che Dio è l’essere purissimo o, meglio “l’atto assoluto dell’essere nella sua pura attualità” e semplicità, al quale è estranea ogni composizione (materia-forma, atto-potenza) e ogni accidentalità, non farebbe altro che riproporre tutti i rischi e le contraddizioni che Aristotele, magistralmente e definitivamente, avrebbe superato. Si potrebbe sintetizzare quanto scritto fino a questo punto utilizzando le parole di Gilson: “dal momento in cui si dice che Dio è l’Essere, è chiaro che in certo senso Dio solo è” (p. 53). Questo tipo di considerazioni, però, risultano infondate sia per ragioni storiche, sia per ragioni teoretiche.

Dal punto di vista storico, infatti, una simile interpretazione non trova conferme né nei testi dell’Aquinate, né nell’interpretazione puntuale e accurata di C. Fabro che per tutta una serie di ragioni (la cui analisi mi porterebbe troppo lontano dagli obiettivi di questo lavoro) io considero come il punto di riferimento più autorevole dell’esegesi tomista.

Nella concezione di Parmenide è impossibile rinvenire qualsivoglia forma di trascendenza non solo per ragioni metafisiche[2], ma soprattutto per ragioni ontologiche. Secondo Parmenide esiste una sola dimensione della realtà, quella dell’Essere per l’appunto, non indagabile a partire dalla conoscenza sensibile ma raggiungibile solo con il λόγος. Tuttavia, non bisogna cadere in inganno: l’unicità della vera realtà concepita da Parmenide non esclude la possibilità di una sua manifestazione anche al livello delle apparenze sensibili e del movimento (“alba” e “tramonto” degli enti particolari). G. Casertano (2009) ha opportunamente spiegato che:

 

Parmenide formalizza, anche linguisticamente, l’oggetto della via di ricerca. La realtà, cioè il “cosmo” dei Presocratici, inteso come uno-tutto, egli lo chiama to eòn, “ciò che è” mentre quella vista come molteplicità dei fenomeni che in essa si dispiegano egli la chiama taeònta, “le cose che sono”. Siamo di fronte, quindi, non a una contrapposizione tra una realtà e una non realtà, tra un “essere” metafisicamente inteso e un “apparire” che viene condannato, bensì a una distinzione tra il discorso che si deve fare sulla realtà come uno-tutto e quello che si deve fare sulla realtà come molteplicità di fenomeni. (p. 86)

 

Con queste sintetiche e preliminari considerazioni, però, ancora non è emerso cosa sia l’Essere secondo Parmenide. Una risposta chiara a questo interrogativo l’ha data G. Reale (2010b) che ha definito l’Essere parmenideo come: “l’essere del cosmo, immobilizzato e in gran parte purificato, ma ancora chiaramente riconoscibile: è, per quanto possa suonare paradossale, l’‘essere del cosmo senza il cosmo’” (p. 182).

“L’essere del cosmo senza il cosmo”. Con questa emblematica espressione Reale ha voluto significare, chiaramente, l’attestazione di Parmenide all’interno del paradigma henologico[3] della prima riflessione greca –fino ad Aristotele, dopo il quale la riflessione henologica ha lasciato il posto all’indagine ontologica (Reale, 2010a, pp. 47-69)–, nel quale la problematica dell’Uno-Molti appare come il punto di partenza e di arrivo della riflessione filosofica.

Siamo di fronte, quindi, al significato più profondo della terza via indicata dalla Dea a Parmenide, per giungere ad una corretta e valida comprensione dei fenomeni del mondo sensibile che, contrariamente a quanto hanno sempre ritenuto –erroneamente– i mortali, non manifestano una strutturale dialettica dell’essere e del non essere, ma vanno ricondotti, pur nella loro contraddittorietà, ad una “superiore necessaria unità, vale a dire nell’unità dell’essere” (Reale, 2008b, p. 186).

Con queste riflessioni siamo ritornati all’assunto principale dal quale siamo partiti: nella concezione parmenidea una sola è la vera dimensione della realtà (la dimensione dell’Essere), e duplice è il suo manifestarsi (ai sensi e all’intelletto correttamente usato).

Nella concezione parmenidea l’Uno (cioè l’Essere) esiste solo nei Molti (ta eònta) come loro fondamento ontologico, e dal loro nascere e tramontare non è né diminuito né aumentato, ma anzi continua a sussistere in un “presente eterno” (Zeller e Mondolfo, 1967, p. 201), nella sua immutabilità e finitezza. Si comprende bene, già a questo punto delle nostre riflessioni, che l’Aquinate non è caduto nella trappola fatale del monismo parmenideo almeno per questa ragione (anche se non è l’unica, come vedremo): dal punto di vista della metafisica dell’essere di Tommaso tra l’Uno –Dio– e il Molti –creature– c’è una differenza ontologica abissale e irriducibile. È possibile rappresentare graficamente quanto fin qui detto in questo modo:

 

A proposito dei limiti di questa concezione G. Reale (2008b) ha osservato che:

 

Una volta riconosciuta come “essere”, qualsiasi cosa doveva venire necessariamente riconosciuta, in quanto essere, altresì come ingenerabile, incorruttibile e immobile. Pertanto, nell’istante stesso in cui Parmenide tentava di ricostruire un mondo dei fenomeni in modo plausibile, cioè senza contravvenire al suo principio della verità, fatalmente lo svuotava di tutta la sua ricchezza di mondo, e lo vanificava nell’immobilità dell’essere. Guido Calogero, parlando di Melisso –ma quello che egli dice vale perfettamente anche per Parmenide– raffigurava lo sguardo dell’Eleate sulle cose del mondo con la splendida metafora della “Gorgone”, la quale immobilizzava, riducendolo in pietra, tutto quello che guardava (pp. 187-188).

 

Se dovessimo, invece, rappresentare graficamente la concezione tomista della realtà potremmo farlo in questo modo:

 

Appare immediatamente chiaro il differente grado di complessità delle due concezioni della realtà. Il primo schema mostra la monotonia della concezione parmenidea, secondo la quale solo l’Essere Immobile, Incorruttibile ed Eterno è veramente, e ogni altra cosa deve essere ricondotta a questo Fondamento ontologico (è questo lo scopo della prima e, in un certo senso, anche della terza via), in quanto sua manifestazione, per essere correttamente conosciuta, mentre il secondo schema mostra una perfetta consapevolezza della complessità del reale e il rispetto della sua varietà a tutti i livelli (in ciò coglie la grande lezione aristotelica che Tommaso accoglie, medita e approfondisce):

 

Le specie degli esseri non formano quindi un mondo monotono, come quello delle idee dell’iperuranio di Platone, ma sono ordinate per se fra di loro, in modo che al basso stanno le forme degli elementi, alle quali seguono quelle dei corpi misti indi vengono i viventi: piante, animali, l’uomo, i corpi celesti, unici nella loro specie e incorruttibili, le intelligenze, e al vertice, Dio. Nell’ulteriore sviluppo della nozione tomista di partecipazione si potrebbe mostrare come quest’ordine ontologico è concepito nel senso più pieno, secondo un intima dipendenza causale degli inferiori dai superiori, che si esercita non secondo una discesa e derivazione lineare, ma quasi concentrica che, pur allargandosi in estensione, guadagna insieme nell’intensità e intimità. (Fabro, 2005, pp. 164-165)

 

È questo un passo di straordinaria importanza e rappresenta la chiave di lettura corretta per intendere lo schema grafico della concezione tomista della realtà. Berti sembra che non abbia tenuto in debito conto che Tommaso, come ha ancora ben rilevato Fabro, gradualmente è arrivato ad una “interpretazione sintetica dei due sistemi” (p. 60) di Platone e di Aristotele (ma non solo da essi, evidentemente),e da essi ha preso le mosse per concepire il suo grandioso edificio metafisico senza cadere nella trappola dell’eleatismo (e come avrebbe potuto dopo la sua riuscita assimilazione del platonismo e, soprattutto, dell’aristotelismo?), che anzi ha saputo aggirare assimilandone soltanto quelle conquiste eterne che, storicamente, è doveroso riconoscergli. Dell’aristotelismo, in particolare, l’Aquinate ne accoglie e approfondisce il cuore pulsante, cioè quell’ampliamento “del raggio della sfera dell’essere” (Reale, 2010a, p. 57; Fabro, 2005, pp. 60-62) alla natura sensibile in tutte le sue manifestazioni, contro –e oltre– a quanto avevano ritenuto Parmenide e Platone, sulla base dei concetti metafisici di potenza e atto e forma e materia, nella prospettiva della “Dialettica dell’Imperfetto e del Perfetto” (Fabro, 2005, p. 119), come ha perfettamente rilevato, ancora una volta, Fabro:

 

Per Aristotele la ragione della partecipazione è trovata nel fatto che una formalità si trova, in natura, realizzata in modi e gradi diversi, secondo prius et posterius, un magis et minus di perfezione: ciò non è possibile se non in quanto esiste di fatto qualcosa che abbia quella formalità in tutta la sua pienezza formale, alla quale più o meno gli altri esseri partecipano, secondo che ad essa sono più o meno vicini.

 

L’asse verticale nello schema grafico di sopra, che taglia verticalmente le “specie degli esseri” è carico di un significato metafisico davvero eccezionale. Come ha scritto B. Mondin (1963):

 

L’esplorazione del regno immenso dell’essere può muovere in due direzioni, orizzontale e verticale. La prima, ovviamente, cammina più in superficie che in profondità: studia l’uomo e le cose più nei loro caratteri esterni e immediatamente controllabili, che in quelli più intimi e perciò più difficilmente percettibili; cerca di conoscere più quello che differenzia che quello che unisce. (p. 287)

 

L’esplorazione della natura a tutti i livelli nasce e si esaurisce nella dimensione sensibile del creato, a partire dalle comunanze e dalle differenze che l’osservazione diretta (indagine empirica) scorge tra le varie specie. L’acuto sguardo dell’Aquinate, però, va ben oltre questa dimensione scientifica, e mira a quell’unica gerarchia in grado di abbracciare gli aspetti estremi del Creato in un unico sguardo (metafisico). La gerarchia dell’essere:

 

La seconda esplorazione, quella verticale, cerca invece di penetrare nella profondità, nell’intimità delle cose; abbandonando la superficie dove le cose presentano caratteristiche molto diverse, si spinge fino nelle zone più profonde in cui tutte le cose affondano le loro radici. A questa esplorazione attende appassionatamente il filosofo. I suoi quesiti non riguardano più questo o quell’ente in particolare, l’uomo, le piante, i minerali, gli atomi, ma l’essere e il divenire che si incontra in tutte le cose.

 

È su quell’asse metafisico che ora bisogna indagare per completare queste riflessioni e rispondere esaustivamente alle prime due domande di Berti.

Dio non è l’essere formale di tutte le cose

 

Nel primo capitolo del secondo libro della Metafisica Aristotele enuncia questo principio fondamentale: “quando molte cose hanno lo stesso nome, quella che è causa per cui anche le altre hanno quel nome, realizza in grado massimo l’essenza espressa da quel nome”. Ad esempio, ciò che è massimamente caldo, il fuoco, è causa del calore di tutte le altre cose più o meno calde, e così via. Questo principio è stato utilizzato da Tommaso per ben quarantaquattro volte dimenticando, però, che nella dottrina di Aristotele questo principio vale solo “nell’ambito delle nozioni univoche” (Berti, 2009, p. 164), questo è il rilievo di Berti:

 

Cioè, quando uno stesso nome si dice di molte cose, con lo stesso significato, in modo univoco, allora la cosa che è causa di quel nome nelle altre, lo possiede in grado massimo. Cioè la differenza di grado ha luogo nell’ambito di un nome univoco, come per esempio nel caso del calore: il calore è una qualità, è una proprietà che ha sempre lo stesso significato, che si dice sempre nello stesso modo, ma con gradi diversi; una cosa può essere più calda, e un’altra può essere meno calda. La differenza di grado non è differenza di significato, non è differenza di genere: siamo nell’ambito del medesimo genere. La differenza di grado ha luogo all’interno di realtà omogenee, di ambiti omogenei.

 

Tommaso sa bene (è ancora lo studioso a notarlo) che né l’essere né l’uno, dal punto di vista di Aristotele, sono nozioni univoche e, in altri termini, non costituiscono un genere. L’argomento di Aristotele, evidentemente tanto caro a Tommaso, non si applica per principio né all’essere né all’uno, pena la ricaduta nel monismo parmenideo. In verità, continua Berti, è esistita una corrente di pensiero molto influente sostenitrice di una concezione della realtà e dell’essere fondata sul principio aristotelico in questione: il Neoplatonismo. Tommaso, secondo l’insigne studioso di Aristotele, sembra che davvero “sia tirato in due direzioni opposte”:

 

Cioè da una parte c’è Aristotele, con tutti i suoi argomenti come l’analogia dell’essere, con la critica al platonismo; e dall’altra c’è appunto il platonismo, il platonismo che però per Tommaso gode di un’autorità immensa: perché non solo egli lo trova nelle opere dei filosofi, come Agostino, ma addirittura lo trova in quello che considera Dionigi Aeropagita, il discepolo di san Paolo, e sulla scorta di questa tradizione, egli crede di trovarlo persino nell’Esodo, nella Bibbia. (p. 165)

 

In realtà, contrariamente a quanto ha sostenuto Berti in questo passo, io credo che Tommaso non sia davvero “tirato in due direzioni opposte” ma, soprattutto dopo gli studi illuminanti di Fabro, sembra sia vero piuttosto il contrario, cioè che Tommaso abbia armonizzato le due strade (aristotelica e platonica-neoplatonica) in una concezione metafisica complessa e coerente. Due sono, a mio parere, gli errori dello studioso:

- Berti, paradossalmente, sembra non tenere in debito conto che “la forma come atto costitutivo della sostanza è il punto di arrivo di Aristotele” e rappresenta il “vertice della Metafisica aristotelica” (Ferraro, 2013, p. 164), mentre per Tommaso essa è solo il punto di partenza;

- La scoperta tomista dell’esse ut actus, cioè dell’esse inteso come “principio costitutivo dell’ens, l’atto profondo, l’atto attuante ogni atto, l’atto primo-primissimo e intimissimo” (p. 185) neutralizza totalmente il presunto problema intravisto dallo studioso: gli enti considerati dal punto di vista formale (prospettiva aristotelica) possono appartenere –e difatti appartengono– a specie e generi differenti, ma dal punto di vista ontologico, e in particolare dal punto di vista tomista della scoperta dell’esse ut actus, possono convergere in un’unica gerarchia ontologica i cui gradi sono determinati dal modo di partecipare degli enti all’Esse Ipsum Subsistens, in quanto “nessun sussistente finito esaurisce la perfezione dell’esse, il quale nel sussistente finito viene limitato ad un genere e una specie determinati” (p. 178).

 

Alcune riflessioni sui due presunti errori di Berti

 

Per Aristotele, ha scritto giustamente Ferraro (2013), “l’atto è il modo principale di essere” poiché:

 

La sostanza, la specie e la forma sono atti, e la forma è l’atto principale. La forma è più atto della specie, perché la specie, come sostanza seconda, è presa a partire innanzitutto dalla forma; la forma poi è più atto della sostanza, perché la sostanza deve alla forma la sua attualità, cosicché la forma è in un certo senso più sostanza della sostanza stessa. (p. 164)

 

La forma è il cuore stesso del reale:

 

E in realtà ciò che anticamente si cercava e ora e sempre si cerca, e che sempre è oggetto di problema, ossia che cos’è l’ente, questo è la sostanza (questo, infatti, alcuni sostengono che è una sola cosa, altri più di una cosa e alcuni, cose di numero finito, altri cose di numero infinito). (Metaph., Z, 1, 1028b2-7)

 

Quella di Aristotele, è stato giustamente notato, è una “ousia disesistenzializzata” (Gilson, 2007, p. 55) che esclude dall’indagine metafisica la problematizzazione radicale dell’esistenza delle cose. La comprensione di ciò che una cosa è non è ancora la comprensione del perché ultimo della sua esistenza. La scoperta tomistica dell’esse ut actus permette di rispondere negativamente a questa domanda:

 

E quindi, dire “Pietro è uomo”, “Pietro è bianco”, “Pietro è figlio di Giovanni” è lo stesso che dire “Pietro è”? Più precisamente: è la stessa e medesima attualità formale per la quale Pietro-è-uomo a fondare la sua esistenza attuale, il suo essere in atto, il suo Pietro-è? (Ferraro, 2013, p. 165)

 

Graficamente possiamo rappresentare così quanto scritto in queste ultime righe:

 

Aristotele si è fermato alla prima composizione (reale) indicata graficamente più sopra, quella tra forma e materia che insieme formano l’inscindibile unità sinologica che è la sostanza. Infatti, a ben guardare, nelle note definitorie della sostanza (genere prossimo e differenza specifica) l’esistenza effettiva della sostanza non è inclusa: “l’essere non appartiene alla comprensione di nessuna essenza” (Ferraro, 2013, p. 166):

 

Eppure, tutte le cose che sono nella definizione devono costituire unità: giacché la definizione è un certo discorso unitario e della sostanza, per cui essa dev’essere discorso di alcunché di unitario. E infatti la sostanza è alcunché di unitario e significa un certo questo, come sosteniamo. Innanzitutto si deve indagare intorno alle definizioni secondo le divisioni. Infatti, nella definizione non dev’esserci nient’altro se non il genere, detto per primo, e le differenze. Gli altri generi sono costituiti dal primo genere e dalle differenze assunte assieme a esso: per il esempio, il genere primo è “animale”, quello che lo segue è “animale bipede”, e di nuovo “animale bipede senz’ali”, e similmente anche nel caso in cui la definizione sia detta mediante più termini. In general, non ha alcuna importanza che sia detta mediante molti o pochi termini, per cui neppure se lo sia mediante pochi o due termini. E dei due, uno è la differenza, l’altro il genere: per esempio, di “animale bipede” “animale” è il genere e la differenza è l’altro termine. (Metaph., VII, 12, 1037b24 sgg.)

 

Lo sguardo estremamente penetrante dell’Aquinate ha scorto nel cuore stesso del reale (la sostanza già studiata dallo Stagirita) una seconda composizione, ancora più fondamentale della prima, quella tra essenza ed esse. Gli enti, “in virtù dell’essenza sono ‘tali’ e in virtù dell’esse ‘sono’” (Ferraro, 2013, p. 166). Dalla nuova e rivoluzionaria prospettiva tomista, dunque, appare evidente che: “quello che per Aristotele era il primo di tutti gli atti, cioè la forma, decade adesso al livello di potenza” (p. 18).

Questa affermazione, giustamente ritenuta da Ferraro come “impensabile per Aristotele”, fa si che l’aristotelismo risulti essere alla fine “mantenuto ma capovolto”. Da quanto scritto fino a questo punto, dunque, appaiono chiare almeno due cose:

1. La metafisica dell’essere dell’Aquinate non rischia la deriva monistica, in quanto mantiene ben saldi i progressi che Aristotele ha compiuto in direzione anti-eleatica, ma li approfondisce in senso esistenziale, fornendo alla metafisica stessa la possibilità di indagare il reale anche nella sua dimensione esistenziale, oltre che formale;

2. Essere (Colui che è) è davvero il nome più appropriato per parlare di Dio.

A favore del punto primo ci sono alcuni passi emblematici della Somma Teologica[4] che, se letti attentamente, mostrano l’infondatezza radicale delle preoccupazione di Berti circa la possibile deriva monistica della concezione tomista: S. Th. I, q. 3, a. 8 –Se Dio entri in composizione con gli altri esseri–, S. Th. I, q. 8, a. 3 –Se Dio sia dappertutto per essenza, per presenza e per potenza–. La scoperta dell’esse ut actus ha permesso al Dottore Angelico di scrivere, nel Respondeo del primo articolo segnalato appena più sopra, che “non è possibile che Dio entri in qualche modo nella composizione di cosa alcuna né come principio formale, né come principio materiale”, dato che Dio, “l’essere assolutamente primo”, è anche la prima causa efficiente, e la “causa efficiente non può mai coincidere con la forma dell’effetto numericamente, ma solo specificamente” (S. Th. I, q. 3, a. 8), così come l’uomo in quanto genitore non genera se stesso, ma un altro uomo. Nell’a. 1 della q. 8 Tommaso ha ribadito questo punto in modo eccezionalmente chiaro:

 

Dio è in tutte le cose, non già come parte della loro essenza, o come una loro qualità accidentale, ma come l’agente è presente a ciò su cui agisce. [...] Ora, essendo Dio l’Essere stesso per essenza, bisogna che l’essere creato sia l’effetto proprio di lui, come il bruciare è l’effetto proprio del fuoco. E questo effetto Dio lo causa nelle cose non soltanto quando cominciano a esistere, ma fin tanto che perdurano nell’essere: come la luce è causata nell’aria dal sole finché l’aria rimane illuminata.

 

Nell’a. 3 della q. 8 Tommaso afferma che Dio è presente nel creato per potenza, per essenza e per presenza:

 

Inoltre, e questo è un rilievo importante, che Dio sia presente nelle cose per sua essenza non vuol dire che in qualche modo sia coinvolto nella loro essenza, ma significa che Dio, essendo causa dell’essere, è presente in esse esclusivamente sotto questo profilo. La varietà del creato, sia dal punto di vista orizzontale (varietà formale) sia dal punto di verticale (varietà della partecipazione ontologica determinata dalla forma particolare dell’ente) è mantenuta e garantita perfettamente. Garantita, inoltre, è la trascendenza di Dio che, seppur presente nelle creature nei modi descritti in S. Th., q. 3, a. 8, rimane comunque infinitamente e radicalmente distante da esse[5]:

 

Nella filosofia di S. Tommaso la questione del rapporto degli enti con l’essere è posta con molta franchezza, ed è risolta tenendo nel debito conto sia l’esigenza dell’unicità del fondamento, sia il fatto del pluralismo delle cause fondamentali: materiale, formale, efficiente e finale. Questo è stato possibile perché S. Tommaso (per primo) ha riconosciuto il primato della causa efficiente rispetto alle altre cause. Il rigido ordine ontologico esistente tra le quattro cause, secondo S. Tommaso, vuole che al vertice non sia posta né la causa materiale (come ritenevano i presocratici), né la causa formale (come insegnava Platone), né la causa finale (come sosteneva Aristotele), ma la causa efficiente. È la causa efficiente che deve stare al vertice, perché essa si identifica con l’Essere Sussistente, la perfezione assoluta, che può dare realtà alla causa materiale e alla causa formale, e costituire a sua volta il fine ultimo d’ogni cosa. (Mondin, 1964, p. 6)

 

Anche da quest’altra prospettiva è dunque garantita la trascendenza di Dio in quanto causa efficiente e fine ultimo di ogni cosa. Nella concezione metafisica di Tommaso non c’è alcun dubbio: tra gli enti e Dio non c’è solo una differenza di grado, ma una differenza radicale di natura: Dio è l’essere per essenza, gli enti sono solo per partecipazione. Dio e le creature non costituiscono una realtà omogenea. La natura agapica della creazione e della presenza divina nel mondo, che nella dimensione umana si manifesta nell’amore di Dio per gli uomini e nel sacrificio di Cristo, dal punto di vista metafisico appare come la donazione gratuita dell’essere agli enti per mantenerli fuori dall’assoluto nulla. Contro quest’ultimo rilievo si scontrano tutti i tentativi che cercano di neoplatonizzare la creazione cristiana, immaginandola come una particolare forma di emanazionismo del Principio Primo. Inoltre ancora Berti (2009) si domanda:

 

Essere è veramente il nome più adeguato per parlare di Dio? O non sarebbe meglio usare altri nomi che esprimono, a mio modo di vedere, perfezioni maggiori come ad esempio Vita, Pensiero, Spirito, Amore? È vero che la vita, il pensiero e l’amore suppongono l’essere; ma il fatto che suppongano l’essere non significa che esprimano l’essenza più profonda dell’essere: esprimono delle perfezioni ulteriori, di tipo qualitativo, che non sono di per sé contenute nella nozione di essere. Dire vita, e dire spirito, e dire amore è più che dire semplice essere. Certamente non credo che sia indispensabile, per chi ammette la Creazione, concepire alla maniera neoplatonica e platonica Dio come Essere. Questo può essere benissimo la causa dell’essere perché è Vita, perché è Spirito, perché è Amore. Può essere non solo la causa dell’essere, ma anche la causa di tutte le altre perfezioni, e quindi causa di vita, causa di pensiero e causa di amore. Cioè non mi sembra necessario –poi possiamo discutere– ridurre tutte le perfezioni di Dio unicamente a questa nozione di essere, con tutte le difficoltà e con tutti i problemi di ordine filosofico che essa pone. (p. 166)

 

In S. Th. I, q. 13, a. 11, l’Angelico fornisce ben tre ragioni per provare che “Colui che è è il nome più proprio di Dio”. Innanzitutto a) bisogna ricordare ciò che è stato dimostrato nelle primissime questioni della Somma Teologica, cioè che “l’essere di Dio è la sua stessa essenza”, e questa è una prerogativa che appartiene esclusivamente a Dio[6]. Per questo motivo “è evidente che fra tutti i nomi questo compete a Dio in modo massimamente proprio: ogni cosa infatti viene denominata dalla propria forma”. Inoltre, è opportuno considerare che b) nello stato di viatore l’uomo “non può conoscere l’essenza di Dio così come è in se stessa” e che ogni nome che attribuiamo a Dio ne limita, in un certo senso, la nostra comprensione. “Vita”, “pensiero”, “amore”, sono nomi che limitano la nostra comprensione, di per sé già oscura, di Dio in quanto ne mostrano solo un aspetto, vale a dire un modo d’essere. Concordemente a quanto affermato dal Damasceno, cioè “che di tutti i nomi che si dicono di Dio quello che meglio lo esprime è Colui che è: poiché comprendendo tutto in se stesso possiede l’essere medesimo come una specie di oceano di sostanza infinito e senza rive”, l’Angelico afferma che “quanto meno i nomi sono ristretti e quanto più sono estesi e assoluti, tanto più propriamente noi li applichiamo a Dio”. Il nostro intelletto si eleva alla conoscenza di Dio a partire “dalle realtà che ci circondano” (Comp. Theo. cap. 24. p. 54), nelle quali le perfezioni che in Dio formano una solida e semplice unità (Comp. Theo. cap. 22. p. 52) si presentano come frantumate in diversi gradi di perfezione.

La mente umana scorge nel creato queste perfezioni e, formatosene dei concetti, le attribuisce a Dio “secondo il modo caratteristico delle creature” (S. Th., I, q. 13, a. 7). È chiaro, dunque, che nello stato di viatore l’uomo riesce a costruire –e non senza fatica– - solo un’immagine sbiadita di Dio che, come un mosaico frammentato e disomogeneo, non ne restituisce l’essenziale e profonda unità e semplicità:

 

Se noi invece potessimo vedere l’essenza divina in se stessa, non ci sarebbe bisogno di tanti nomi, ma avremmo di Lui una conoscenza semplice, così come è semplice la sua essenza. Ed è questo ciò che noi aspettiamo nel giorno della gloria, secondo quanto ha detto il profeta Zaccaria: “In quel giorno uno solo sarà il Signore, uno solo il suo nome” (Zacch., XIV, 9). (Comp. Theo. cap. 24. p. 54)

 

L’esse, inteso tomisticamente come “pienezza di attualità e perfezione” (esse ut actus) (Ferraro, 2014, p. 34), è davvero “oceano di sostanza infinito e senza rive”, almeno fino al momento in cui viene determinato dalle essenze che, per l’appunto, lo restringono a un determinato grado. Da questa prospettiva appare chiaro che l’esse ut actu è la radice stessa di ogni perfezione che anzi lo restringono e lo contraggono sempre più. Ecco un passo di Mondin davvero illuminante:

 

L’essere, concepito come radice di tutto, è ciò per cui qualsiasi cosa è in atto tutto quello che è. L’essere, quindi, non è né una perfezione minima né una perfezione particolare, ma è la perfezione assoluta. Questo primato gli appartiene perché l’essere è l’atto supremo, l’atto di ogni attuazione. E si noti bene che non si tratta come negli altri casi di una perfezione possibile, ma attuale. Infatti, mentre qualsiasi altra perfezione può considerarsi indifferentemente come esistente o come non esistente, come reale o come possibile, l’essere si deve invece concepire anzitutto come essente, come reale, come attuale. Solo questa concezione dell’essere si addice alla sua proprietà di essere atto primo. La nozione d’ogni altra perfezione è logicamente perfetta anche se la perfezione viene considerata solo nello stato di possibilità. Invece la nozione dell’essere viene logicamente modificata in maniera radicale qualora per essere non si intenda l’attualità di ogni atto, ma solo la condizione della possibilità di una cosa. (Mondin, 1963, p. 301)

 

Con l’emblematica espressione “perfezione assoluta” dobbiamo intendere proprio il carattere universale e non limitato, quindi fondamentale, della perfezione dell’esse ut actus che, coerentemente a quanto ha scritto Tommaso in S. Th. I, q. 13, a. 11, risulta essere davvero “il nome più proprio di Dio”. L’errore di Berti, a ben vedere, è nato dal fatto che lo studioso si è posto dalla prospettiva essenzialistica della metafisica aristotelica, ignorando le conquiste della scoperta tomistica dell’esse ut actus inteso come actualitas omnium actuum et perfectio omnium perfectionum. Come ha ben spiegato chiaramente Ferraro (2013, p. 180) ci sono due prospettive dalle quali è possibile considerare tutta la questione: a) il punto di vista logico-formale, e b) il punto di vista metafisico-effettivo.

Dalla prima prospettiva (che è quella dalla quale Berti guarda –aristotelicamente– la realtà) è evidente che “l’esse come si trova posseduto da un microbo è molto inferiore all’esse di un delfino, e questo è senz’altro inferiore all’esse di un angelo” (Ferraro, 2013, p. 180), in quanto “le essenze sono come dei recipienti e contengono tanto essere quanto ne comporta la loro capacità”, poiché “l’essere si trova nelle cose secondo la capacità dell’essenza che lo riceve” (Mondin, 1963, p. 301). Dalla seconda prospettiva, invece, l’esse risulta essere “meglio del vivere e del pensare, perché nell’intensività dell’esse si contengono le altre perfezioni, le quali altro non esprimono che un modo, un grado, un aspetto dell’eminenza sovrabbondante dell’esse” (Ferraro, 2013, p. 180). Ignorando completamente la ricchezza dell’esse scoperta dell’Aquinate, Berti, proponendo un ripensamento del nome proprio di Dio (e quindi della dottrina metafisica alla base di questa attribuzione) regredisce al livello di una metafisica essenzialistica abbondantemente superata dalla svolta metafisica dell’Angelico. Se affermassimo che il nome di Dio è Amore, limiteremmo la sua perfezione ad un solo modo d’essere:

Il secondo luogo in base a quanto abbiamo già visto [q. 3 a. 4], che cioè Dio è l’essere stesso per sé sussistente: da cui la necessità che egli contenga in sé tutta la perfezione dell’essere. è chiaro, infatti, che se un corpo caldo non ha tutta la perfezione del caldo, ciò avviene perché il calore non è partecipato in tutta la sua perfezione; se però il calore fosse per sé sussistente non gli potrebbe mancare nulla di ciò che forma la perfezione del calore. Ora, Dio è lo stesso essere per sé sussistente: quindi nulla gli può mancare della perfezione dell’essere. ma le perfezioni di tutte le cose fanno parte della perfezione dell’essere, essendo le cose perfetta a seconda che partecipano dell’essere in una data maniera. Dal che segue che a Dio non può mancare la perfezione di alcuna cosa. E anche a questa ragione accenna Dionigi [De div. Nom. 5, 1, 4] quando dice che Dio “non è esistente in una quale maniera, ma in modo assoluto e illimitato precontiene in sé uniformemente tutto l’essere”. E poco dopo aggiunge che “Egli è l’essere di quanto sussiste”. (S. Th., I, q. 4, a. 2)[7]

 

Infine, è opportuno fornire una risposta anche alla prima domanda posta dallo studioso: “È necessario per chi ammette la Creazione (e ammettere la Creazione non si discute, anch’io l’ammetto) considerare Dio come Ipsum Esse?, anche se la risposta che darò è già contenuta in nuce nelle pagine precedenti.

 

Riflessioni conclusive. La contingenza radicale delle cose richiede che il Fondamento Ultimo sia l’Ipsum Esse

 

Né i presocratici, né Platone e né Aristotele sono riusciti “a trovare un assoluto, un fondamento supremo, una causa ultima in grado di dare da sola una spiegazione totale delle cose” (Mondin, 1964, p. 5). I presocratici, infatti, non superarono l’ordine della conoscenza sensibile e, quindi, la dimensione della materia (De pot. q. 3, a. 5). Platone e Aristotele, invece, avanzarono sulla strada della conoscenza metafisica, ma senza pervenire al concetto di contingenza radicale del mondo[8].

Si rifletta sul cap. 68 del Compendio di teologia nel quale l’Angelico sostiene che “tutto ciò che possiede qualcosa per partecipazione deve essere ricondotto a ciò che lo possiede per essenza come al proprio principio e alla propria causa” (è il famoso principio aristotelico utilizzato per ben quarantaquattro volte da Tommaso in senso ontologico). Ebbene, questo principio, che nella prospettiva del Dottore Angelico diventa il cardine della trama ontologica del reale, garantisce la veridicità dell’intendimento di Dio come Ipsum Esse, nella misura in cui in tutti gli enti una cosa è la forma (per la quale una cosa è ciò che è) e altra è l’essere (per il quale una cosa semplicemente è). È evidente, quindi, che l’essere degli enti, non essendo una caratteristica interna del sinolo (anzi, dalla definizione di un ente non emerge affatto la sua dimensione esistenziale) deve pervenire da fuori. L’essere entra in composizione con il sinolo materiale, ma non gli appartiene essenzialmente (Fabro, 2005, p. 191). Il Primo Motore Immobile era, nella concezione aristotelica, responsabile solo dell’eterno mutamento degli enti, perennemente inseriti nel perenne ciclo della corruzione e della generazione. Infatti la domanda metafisica “perché l’essere piuttosto che il nulla?” non troverebbe, nel sistema aristotelico (ma nemmeno in quello platonico), alcuna risposta davvero soddisfacente e definitiva.

Deve esserci, quindi, una fonte originaria, perenne, inesauribile e perfetta di essere che oltre ad aver concesso l’essere agli enti, li mantiene per un dato periodo di tempo (secondo misteriosi disegni non perfettamente intelligibili all’uomo) lontani dall’assoluto nulla. Tale inesauribile fonte non può che essere Dio, dato che in Lui non vi è composizione né di materia e forma né di potenza e atto e nulla Gli si aggiunge per accidente. Mancando di ogni potenzialità e di ogni forma di composizione la sua essenza non è altra cosa del suo essere.

C’è, tuttavia, un’altra strada per rispondere positivamente alla domanda dello studioso che, è bene ricordarla, si presenta in questi termini: “È necessario per chi ammette la Creazione (e ammettere la Creazione non si discute, anch’io l’ammetto) considerare Dio come Ipsum Esse?”. Nelle questioni sulla potenza di Dio (q. 3, a. 6) l’Aquinate spiega che gli antichi commisero ben tre errori nella determinazione dei principi di tutte le cose. Innanzitutto negli enti essi “tenevano conto soltanto del fatto che la natura della specie li rende diversi e non del fatto che la natura del genere fa sì che ci sia in essi qualcosa di comune, benché siano contrari in uno stesso genere”. Questo errore indusse gli antichi filosofi a cogliere negli enti le cause della loro distinzione e non ha individuare in essi gli elementi comuni: la trama profonda del reale gli restò oscura. Inoltre, “davano lo stesso valore a ciascuno dei due contrari”, nonostante uno dei due necessariamente “porta sempre con sé la privazione dell’altro”. Infine, l’Aquinate ci spiega che essi “valutavano le cose, considerandole soltanto in sé stesse o in base al rapporto di una cosa un’altra cosa particolare e non in riferimento all’ordine complessivo dell’universo”. I filosofi antichi non capirono che tutte le cose, dietro le loro differenze essenziali, hanno in comune perlomeno il fatto di essere, in qualche modo. “Deve quindi esserci un unico principio di tutte queste cose, che è per tutte la causa dell’essere”, e il principio non può che essere Dio, l’Esse Ipsum Subsistens[9]. Per chi ammette la creazione, quindi, è davvero necessario considerare Dio come l’Esse Ipsum, onde evitare di ricadere nell’errore degli antichi, individuato e denunciato da Tommaso, di non considerare ciò che le cose hanno in comune e restare ancorati a spiegazioni insufficienti del reale.

 

Riferimenti

 

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Aristotele. (2009). Metafisica (M. Zannata, ed.). Bur.

Berti, E. (2009). San Tommaso commentatore di Aristotele. In Nuovi studi aristotelici: Vol IV/1. L’influenza di Aristotele. Antichità, Medioevo e Rinascimento (pp. 155-166). Morcelliana.

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Fabro, C. (2005). La nozione metafisica di Partecipazione secondo San Tommaso d’Aquino. In Opere Complete (Vol. 3). Edivi.

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Reale, G. (2008a). L’impossibilità di intendere univocamente l’essere e la “tavola” dei significati di esso secondo Aristotele. In Il concetto difilosofia primae l’unità della metafisica di Aristotele. Bompiani.

--. (2008b). Storia della filosofia greca e romana: Vol. 1. Orfismo e presocratici naturalisti. Bompiani.

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[1]  “L’Uno e l’Essere”, infatti, “si predicano di tutti gli enti” commenta giustamente Alessandro di Afrodisia , ma se si ammette che l’Essere e l’Uno sono sostanze, e se si accetta il principio parmenideo che “ciò che è distinto dall’Essere è non-essere”, di conseguenza non esisterà alcuna cosa che sia al di là dell’Uno: se una cosa è al di là dell’Uno, lo è anche dell’Essere (ammesso che Essere e Uno siano intesi in senso non omonimo). Alessandro di Afrodisia, Commentario alla Metafisica di Aristotele.

 

[2]  Solo a partire dalla “seconda navigazione” (δεύτερος πλοῦς) compiuta da Platone nel Fedone, Reale (2010a) ha, infatti,  giustamente scritto: “la ‘seconda navigazione’, dunque, ha condotto Platone a riconoscere l’esistenza di due piani dell’essere: uno fenomenico e visibile e l’altro metafenomenico e coglibile solamente con i logoi, e, dunque, puramente intelligibile (p. 152)”.

 

[3]  Fabro ( 2010) ha scritto: “Se l’inizio della filosofia è posto comunemente nell’Asia Minore per merito della cosiddetta Scuola ionica, che ha sentito per la prima volta il problema dell’Uno e dei Molti a cui si volge ogni filosofare, la metafisica come dottrina tesa ad attingere l’Uno e l’Assoluto ha il suo fondatore in Parmenide di Elea in Italia: infatti, mentre per gli Ionici l’Uno è un elemento nominato o innominato, per Parmenide esso è l’Essere inteso come la verità, come ‘logos’ comprensivo del reale”. 

 

[4]  Per questione di brevità presenterò solo i passi della Somma Teologica, ma in nota saranno citati anche i passi corrispondenti del Compendio di Teologia e della Somma contro i Gentili.

 

[5]  Il Sole, in quanto sorgente di luce, illumina con i suoi raggi gli oggetti del mondo sensibile, ma il Sole (né i raggi) non si identifica con essi. Nella Somma contro i Gentili l’Aquinate ha scritto: “Né si pensi che egli sia nelle cose come mescolato con esse: infatti sopra abbiamo dimostrato che Dio non è ne materia né forma di nessuna cosa. Ma egli è in tutti gli esseri come loro causa agente” (C. G. III, cap. 68, p. 710). 

 

[6]  “Poiché come ciò che è infuocato e non è fuoco è infuocato per partecipazione, così ciò che ha l’essere e non è l’essere è ente per partecipazione. Ma Dio, come si è provato, è la sua essenza. Se dunque non fosse il suo atto di essere, sarebbe ente per partecipazione e non per essenza. Non sarebbe più dunque il Primo Ente, il che è assurdo affermare. Quindi Dio si identifica con il suo essere, e non soltanto con la sua essenza” (S. Th. I, q. 3, a. 4).

 

[7]  La terza ragione addotta dall’Aquinate in S. Th., I, q. 13, a. 11 è teoreticamente meno interessante delle prime due, ma per completezza, considerata la brevità dell’esposizione, vale la pena riportarla qui in nota: “Terzo [argomento], per la modalità inclusa nel suo significato. Indica infatti l’essere al presente: e ciò si dice in modo sommamente proprio di Dio il cui essere, come afferma S. Agostino [De Trin. 5, 2], non conosce passato o futuro”.

 

[8]  Certamente si possono con facilità accumulare i passi in cui Platone pone l’Uno all’origine del multiplo, e Aristotele il necessario all’origine del contingente. Ma in nessun caso la contingenza metafisica, di cui essi parlano, potrebbe superare l’unità e l’essere, ai quali essi pensano. Che la molteplicità del mondo di Platone sia contingente rispetto all’unità dell’Idea, la cosa va da sé; che gli essi del mondo di Aristotele, trascinati di generazioni in corruzioni dal flutto incessante del divenire, siano contingenti rispetto alla necessità del primo motore immobile, è ugualmente naturale; ma che la contingenza greca nell’ordine dell’intelligibilità e del divenire abbia mai raggiunto la profondità della contingenza cristiana nell’ordine dell’esistenza, è ciò di cui non abbiamo alcun segno, e ciò che non si poteva pensar di concepire prima di aver concepito il Dio cristiano. Produrre l’essere, puramente e semplicemente, è l’azione propria dell’Essere stesso. Non si potrebbe raggiungere la nozione di creazione, né la distinzione reale tra l’essenza e l’esistenza in ciò che non è Dio, finché si ammettono quarantaquattro esseri in quanto esseri. Ciò che manca a Platone come ad Aristotele è l’Ego sum qui sum (Gilson, 1947, pp. 90-91).

 

[9]  Questa strada è tanto più sicura quanto più si considerano le dimostrazioni dell’Aquinate dell’unità di Dio (S. Th. I, q. 11, a. 3; C. G. I, c. 42, Comp. Theo. cap. 15).