Tommaso contro se stesso? Pietro Pomponazzi e Tommaso d’Aquino sul problema de anima

Thomas against himself? Pietro Pomponazzi and Thomas Aquinas on the problem of anima


Francesco Luigi Gallo

gfrancescoluigi@gmail.com



Resumen: Questo studio si pone due obiettivi. Innanzi tutto vuole essere un invito alla riconsiderazione del confronto tra Pomponazzi e Tommaso d’Aquino sul problema della natura e dell’immortalità dell’anima umana ingaggiato nelle pagine del De immortalitate animae del 1516. Su questo versante, inoltre, l’auspicio è quello di un ritorno sulla figura del Mantovano che troppo spesso viene confinata nell’ingiusta categoria dei cosiddetti filosofi minori. In secondo luogo questa ricerca intende mostrare l’attualità del confronto tra i suddetti filosofi al fine di farne emergere la rilevanza filosofica anche per la ricerca antropologica contemporanea. Sarà messa in evidenza, infine, la strategia filosofico-argomentativa attuata da Pomponazzi: mettere Tommaso in contraddizione con se stesso.


Parole chiave: anima, immortalità, intelletto, Pietro Pomponazzi, san Tommaso d’Aquino


Abstract: This study has two objectives. First of all it wants to be an invitation to reconsider the confrontation between Pomponazzi and Thomas Aquinas on the problem of the nature and immortality of the human soul engaged in the pages of De immortalitate animae of 1516. On this side, moreover, the hope is that of a return to the figure of Mantovano who too often is confined to the unjust category of the so-called minor philosophers. Secondly, this research intends to show the relevance of the confrontation between the aforementioned philosophers in order to bring out their philosophical relevance also for contemporary anthropological research. Finally, the philosophical-argumentative strategy implemented by Pomponazzi will be highlighted: putting Thomas in contradiction with himself.


Keywords: soul, immortality, intellect, Pietro Pomponazzi, St. Thomas Aquinas


Recibido: 10 de octubre de 2020

Aprobado: 30 de octubre de 2020



Introduzione


Sebbene Pietro Pomponazzi sia stato definito come “il più grande degli aristotelici del Cinquecento” (Garin, 1966, p. 502), pare che oggi non goda di particolari attenzioni nel panorama scientifico sia italiano che internazionale. Tuttavia sembra non sia conveniente liquidare a cuor leggero il Mantovano che, dal punto di vista prettamente filosofico, risulta per la storia del pensiero filosofico rinascimentale una figura di primissimo piano (Kristeller, 1962).

Ciononostante, nella manualistica della scuola secondaria ad esempio spesso Pomponazzi è inserito ingiustamente nell’ambigua categoria dei pensatori minori e gli sono dedicate, al massimo, un paio di pagine stringate e superficiali. In questo studio mi prefiggo di presentare la fisionomia intellettuale di Pietro Pomponazzi, mostrandone tuttavia solo le linee più generali e riservandomi di affrontare altre tematiche relative al suo pensiero in successive occasioni di ricerca. Nel secondo paragrafo, invece, tenterò di far emergere la rilevanza dello scontro tra Pomponazzi e Tommaso d’Aquino sia dal punto di vista storico sia da quello filosofico -che a mio modo di vedere è decisamente più importante-. Nel terzo paragrafo, invece, mi limiterò a ricostruire l’architettura dell’opera più famosa di Pomponazzi, il De immortalitate animae (1516), facendo risultare soltanto il gioco dialettico messo in atto dal Mantovano per riuscire a mettere in contraddizione Tommaso d’Aquino con se stesso. Furbescamente, infatti, Pomponazzi sembra avvalorare in un primo momento le argomentazioni tomiste -peraltro realmente coerenti con quelle pomponazziane- volte a dimostrare l’unitarietà dell’anima (principio formale) e del corpo (principio materiale) nell’indissolubile unità sinologica che contraddistingue l’uomo e, aristotelicamente parlando, tutte le forme materiali. Ma è proprio a partire da questa indissolubile unità antropologica, rivendicata più volte1 e con forza dall’Aquinate sia contro gli averroisti che contro i platonici, che alla fine Pomponazzi fa emergere la contraddizione del Dottore Angelico con i suoi stessi principi filosofici: com’è possibile, infatti, che l’anima-forma sia allo stesso tempo forma corporis e forma substantialis2 senza con ciò mettere in pericolo l’unità profonda dell’essere umano? Che non siano state le esigenze di fede ad aver intorbidato le acque della riflessione filosofica dell’Aquinate? È questa la tesi pomponazziana.

Infine, nelle riflessioni conclusive cercherò di far risultare alcuni significati filosofici assai rilevanti della disputa Pomponazzi-Tommaso.

1. La fisionomia intellettuale di Pietro Pomponazzi


Secondo Garin Pomponazzi è stato il più grande degli aristotelici del Cinquecento. Aristotelico sì, ma sui generis: come scrive Poppi, infatti, “Pomponazzi […] si dichiara un commentista: tale è la sua professione, comune del resto ai suoi colleghi, di spiegare cioè la filosofia di Aristotele, così com’essa era stata illustrata da Averroè […]; ma in questa sua funzione, a differenza degli altri professori, egli portava una penetrazione e uno spirito di indipendenza veramente singolari” (Poppi, 1966, pp. XIV-XV). Sui testi di Aristotele Pomponazzi tornò a più riprese sia per ragioni filosofiche, sia per ragioni accademiche: è noto, infatti, che a quel tempo i lettori di filosofia naturale avevano l’obbligo di leggere, ogni tre o quattro anni, integralmente o parzialmente, sia “libri naturali” di Aristotele sia il commento di Averroè, considerato a parer di molti il commentatore per eccellenza. Considerando, inoltre che il periodo della lettura dei principali libri di filosofia naturale aristotelica era di tre o al massimo di quattro anni, è stata giustamente avanzata l’ipotesi che nei trentadue anni d’insegnamento complessivi negli studi di Padova e Bologna, Pomponazzi abbia dovuto esporre almeno otto o dieci volte la Fisica, il De caelo, e il De anima, e diverse volte sicuramente anche le altre parti del corpus aristotelicum.

Ma mai Pomponazzi si è arrestato fedelmente alla lettera aristotelica, quasi che nei libri dello Stagirita fosse custodita già la verità. È stato ancora Garin ad aver tratteggiato perfettamente la fisionomia intellettuale di Pomponazzi in un lungo passo che però merita di essere letto per intero:


Pomponazzi insiste in più luoghi sul carattere solitario e ribelle del vero filosofo; ribelle fra gli uomini comuni, che sono piuttosto animali che persone, o maschere e finzioni dinanzi a divinità terrene; “i filosofi sono come Dei terreni, tanto lontani dagli altri tutti come uomini veri da figure dipinte”. Ribelle rispetto al filosofare medesimo, quando questo divenga luogo comune, banale, ripetizione di motivi accolti passivamente; poiché il filosofare non è ripetere le parole del Filosofo (Aristotele) o del Commentatore (Averroè), ma è ricercare il vero senza rispetto alcuno per autorità alcuna. Nelle quaestiones de remanentia elementorum in mixto egli risponde fieramente a quelli che lo rimproverano di criticare tutti per spirito di contraddizione, per ambiziosa pretesa di isolarsi. Egli, invece, è pronto a criticare se stesso per amore del vero: “non mi vergogno, per amore di verità, a ritrattare anche quello che io stesso ho detto. Perciò quanti dicono che contrasto gli altri per amore di contrasto, mentono. In filosofia, chi vuol trovare la verità deve essere eretico”. Di qui il suo sdegno per i ripetitori d’Aristotele, d’Averroè, di Tommaso, i trombetti del passato, come li dirà Galileo; di qui il suo disprezzo per il letterato, arrogante e superficiale, che crede che lo spirito dei filosofi antichi stia rinchiuso nelle loro espressioni verbali, e pensa di intendere i filosofi chiosandone i libri come quelli dei poeti. (Garin, 1966, pp. 510-511)


Il pittoresco ritratto di Garin coglie il cuore dello spirito filosofico del Mantovano. Infatti, dalle ricerche condotte sul famoso corso universitario del 1504 tenuto sul De anima di Aristotele, del quale sono conservate due fonti manoscritte (ms. E. 42 della Bibl. Naz. Di Napoli e ms. VIII. D. 81 della stessa Bibl.) (Poppi, 1970, p. 31), emerge chiaramente come dei problemi “della immaterialità e incorruttibilità dell’intelletto umano, della sua unione con il corpo e, di conseguenza, della sua unicità per l’intera specie umana o della sua molteplicità secondo gli individui” (p. 29).. Pomponazzi rilevasse sensibilmente tutta la portata filosofica ben oltre la lettera dello Stagirita e dei suoi illustri commentatori, mostrando una profondissima inquietudine interiore sconosciuta a coloro che alla mera lettura e spiegazione del testo aristotelico non aggiungevano il tormento filosofico per la ricerca della verità (a partire dal testo, ma oltre il testo). Non bisogna aspettare la pubblicazione del De immortalitate animae del 1516 per vedere come il tormento del continuo problematizzare filosofico rodesse dall’interno lo stesso aristotelismo del quale Pomponazzi, com’è stato giustamente sottolineato, fu uno dei massimi rappresentanti. Fin dal corso del 1504, infatti, Pomponazzi risultava profondamente insoddisfatto sia della soluzione tomista data al problema del rapporto tra l’anima e il corpo, ritenuta dal Mantovano come una “opinio theologica” (p. 44) ricca di insolubili contraddizioni interne, sia della soluzione averroista, ritenuta “fatua et bestialis” (p. 41)3.

L’impostazione filosofica del Mantovano fu ben descritta anche dal positivista italiano R. Ardigò. Nel famoso Discorso su Pietro Pomponazzi (1908, p. 31)4, che il noto filosofo pronunciò a Mantova, nel Teatro scientifico del Liceo Virgilio, il 17 marzo del 1869. Prima di Galileo, Giordano Bruno e Tommaso Campanella fu proprio Pomponazzi, osserva Ardigò, a dimostrare la naturalità delle cose ridefinendo nitidamente i confini della filosofia naturale ed estromettendo dalle spiegazioni causali dei fenomeni tutto ciò che non poteva essere ricondotto all’impianto nomologico-causale del mondo fisico (Ardigò, 1908, p. 31). Nel passaggio epocale dal credere al conoscere (verificatosi in modo fluido, spesso confuso e in un modo non sempre lineare tra il Cinquecento e il Seicento) nel quale alle spiegazioni trascendenti si cercò di sostituire tentativi di risposta immanenti5, Pomponazzi ha giocato certamente un ruolo di primissimo piano.

O. Franceschelli sostiene che “una concezione dell’uomo emancipata dai pregiudizi teleologici e dalle loro traduzioni secolari abbia rappresentato lo snodo filosofico più innovativo e contrastato del passaggio moderno dal creato alla natura” (Franceschelli, 2007, p. 7). Non bisogna aspettare Darwin, però, per questo tipo passaggio decisivo. Sembra infatti possibile riuscire ad individuare una storia di questa emancipazione che, man mano nella sua evoluzione, ha originato diverse e sempre più consapevoli condizioni di possibilità di un’immagine dell’uomo e, in generale, del mondo, comprensibili in termini naturalistici spingendosi indietro proprio fino a Pomponazzi. L’antropologia pomponazziana sostiene, per usare l’espressione di Franceschelli, l’eco-appartenenza dell’uomo alla natura, ed è senza dubbio un tentativo di spiegazione della natura umana “ordine biologico demonstrata” (p. 8)6.

A tal proposito c’è un passo davvero emblematico in cui Pomponazzi, riguardo le guarigioni presumibilmente causate dall’azione dei demoni, rigetta il tipo di spiegazione sovrannaturale a favore di una concezione naturalistica della guarigione:


In terzo luogo: noi possiamo dare conto di questi dati dell’esperienza ricorrendo a cause naturali; né sussiste alcuna argomentazione razionale che provi in modo conclusivo che essi sono causati dai demoni: dunque i demoni sono ammessi senza motivo. È infatti ridicolo e del tutto sciocco abbandonare le cause evidenti e le spiegazioni che possono essere dimostrate mediante la ragione naturale per andare in cerca di cause non evidenti, che non possono essere argomentate con nessun ragionamento verosimile. (Pomponazii, 2013, p. 108)


È vero che il principio di economia illustrato nel passo appena letto “costituisce la cerniera dell’intero sviluppo argomentativo” (p. 21) del trattato, ma non è certamente l’unico aspetto metodologico ed epistemologico rilevante dell’opera in questione e, in generale, del pensiero di Pomponazzi. Accanto al tentativo di spiegazione in termini di causalità naturale dei fenomeni misteriosi (principio di economia) il cui accadimento era attribuito ad una causazione sovrannaturale -tentativo che già da solo, prescindendo dagli effettivi risultati raggiunti, basterebbe ad assicurare a Pomponazzi un posto di rilievo tra i pensatori nuovi dell’età moderna- ci sono almeno altri due essenziali aspetti necessari per una visione scientifica della realtà che fanno dell’opera complessiva del Mantovano un tassello importantissimo anche della storia del pensiero scientifico-:

1) la concezione della conoscenza come progressiva conquista mai definitivamente conclusa;

2) la difesa del valore di autonomia della ricerca da ogni influenza ad essa estranea;

A mio avviso il primo punto è davvero l’asse portante del pensiero pomponazziano e nel De Incantationibus se ne hanno diverse attestazioni. Prima fra tutte l’uso costante e sistematico (quindi non casuale) di espressioni congetturali che mostrano la chiara consapevolezza di Pomponazzi circa l’impossibilità di formulare teorie certe e risolvere una volta per tutte alcune quaestiones nell’ambito della filosofia naturale7. Per fare un esempio, in De Incantationibus IX, 1 il Mantovano sostiene che il “dubbio non è del tutto estraneo alla scienza” e sempre nel medesimo paragrafo scrive che proprio per la complessità dell’argomento trattato (l’esistenza di angeli e demoni) qualcuno dopo di lui potrebbe proporre una soluzione migliore e più convincente:


Sebbene io non ritenga di poter esaurire appieno questa obiezione, credo però che dopo di me ci sarà qualcuno che ci riuscirà meglio: le scienze infatti si sviluppano per aggiunte successive, come è scritto nel libro secondo della Metafisica e alla fine del libro secondo delle Confutazioni. (Pomponazzi, 2013, p. 175)


Vorrei fare due considerazioni sul passo appena letto: innanzitutto è evidente l’orientamento progressista della ricerca pomponazziana che, orientandosi al futuro, non considera la conoscenza come un recupero di una prisca sapientia (tematica cara al pensiero umanistico-rinascimentale e in particolare al sapere magico-ermetico8) ma come la conquista -faticosa e sofferta- di una verità mai veramente posseduta dal filosofo. Questa idea poco meno di un secolo dopo sarà ribadita esattamente anche Galilei in un importante passo della lettera-trattato a Madama Cristina di Lorena del 1615 (Galilei, 2008, p. 51). La seconda considerazione, che è possibile intenderla come condizione di possibilità della concezione progressista della conoscenza, è la totale libertà di Pomponazzi dalla dottrina aristotelica, da lui recepita come orientamento filosofico generale dell’attività di ricerca. La ricezione pomponazziana della tradizione aristotelica non ha certo assunto le sembianze di una fredda accettazione di un corpus dottrinale indisponibile ad un eventuale ampliamento, alla decisa critica e al suo parziale o totale superamento. Anzi, l’attività intellettuale di Pomponazzi mostra una certa dinamicità, ed è proprio quest’ultima che gli fa intendere l’aristotelismo come un validissimo punto di partenza, ma non certamente un punto di arrivo. Se così non fosse, infatti, non si capirebbe il senso di questo passo situato nelle conclusioni del De Incantationibus e che dal punto di vista della comprensione del metodo pomponazziano ha certamente un valore non trascurabile:

Allo stesso modo io penso che si debba badare a considerare valide le mie risposte fin tanto che non se ne trovino di migliori. Su questo argomento, in effetti, gli altri autori non mi sono serviti piuttosto nulla che poco. Però è difficile dare l’avvio ad una ricerca e portarla a compimento: sia perciò sufficiente che io l’abbia avviata, anche se non l’ho condotta a compimento. Infatti le scienze si sviluppano per aggiunte successive; e se non ci fosse stato Frini, non ci sarebbe stato Timoteo, come è scritto nel secondo libro della Metafisica. (Pomponazzi, 2013, p. 327)


In questo passo possiamo individuare: a) l’indipendenza dell’argomentazione pomponazziana dai pensatori del passato e dai suoi contemporanei (“gli altri autori non mi sono serviti piuttosto nulla che poco”), b) la concezione cumulativa della conoscenza (“infatti le scienze si sviluppano per aggiunte successive”), c) la concezione progressista della ricerca ulteriormente ribadita e che fa da sfondo alla concezione cumulativa della conoscenza, d) la piena consapevolezza del carattere provvisorio di ogni risposta a questioni di filosofia naturale (“allo stesso modo io penso che si debba badare a considerare valide le mie risposte fin tanto che non se ne trovino di migliori”).

Secondo L. Geymonat, l’aristotelismo imbrigliò “la natura in schemi dialettici, definizioni, principi generali, ecc., che finirono col dare alla loro ricerca un carattere di astrattezza e generalità, in contrasto con il proclamato empirismo” (1981, pp. 59-60). Ebbene, contrariamente a questa tesi generale sulla tradizione aristotelica, l’aristotelismo di Pomponazzi, invece, si presenta piuttosto come un sistema aperto. Pare infatti che il Mantovano abbia inteso mantenere saldi solo i principi generali dell’aristotelismo (della fisica, della biologia e della metafisica) a partire dai quali ha poi indagato uno spettro molto ampio di fenomeni quali la natura dell’anima umana, l’esistenza dei demoni, il fenomeno della nutrizione ecc., evitando, però, quell’errore tipico ogni sistema di pensiero che si presenta come totalizzante comprensione del reale. L’aristotelismo pomponazziano è un aristotelismo piuttosto metodologico che contenutistico che oltre a rinunciare alla sacralizzazione dello Stagirita -e ciò emerge chiaramente nel De Incantationibus ad esempio, quando afferma che Aristotele “per aver tralasciato un argomento così importante”, cioè l’esistenza dei demoni, “non è esente da particolare biasimo” (Pomponazzi, 2013, p. 178)- sa anche “spingersi oltre i testi di Aristotele” proprio su quei temi “tralasciati dalla sua filosofia naturale” (p. 57). Sono proprio affermazioni come quest’ultima a legittimare il riconoscimento del posto di Pomponazzi in quella “vasta offensiva contro il ‘principio di autorità’” che nacque, come spiega L. Bianchi, proprio “all’interno della stessa tradizione aristotelica” (2003, p. 123). Nel cap. XXV del primo libro del De nutritione et augmentatione c’è un passo che (di)mostra come la spinta teoretica e il pensiero critico-problematizzante siano, nella prospettiva di Pomponazzi, elementi di valore ben superiore al mero lavoro di scavo ed interpretazione dei testi dello Stagirita:


A tali dubbi bisogna rispondere dicendo che esprimere un giudizio fermo e determinato nell’ambito della filosofia naturale è da uomini temerari e ignoranti che non sanno dove sta la difficoltà della questione e somigliano a inesperti belligeranti che si sottopongono alla battaglia senza cognizione del pericolo. Di conseguenza la filosofia naturale, come penso, è più un insieme di congetture che una scienza certa. (Pomponazzi, 2013, p. 2391)


Questo passo è epistemologicamente assai rilevante e disconferma, almeno per il caso di Pomponazzi, l’atteggiamento tipico dell’aristotelismo messo in rilievo da Geymonat. Le considerazioni pomponazziane, infatti, mostrano piuttosto una ferma consapevolezza della provvisorietà e della precarietà di ogni conoscenza in naturalibus che mal si concilia con una concezione dell’aristotelismo inteso come arido e rigido blocco dottrinario nel quale incastrare il mondo dell’esperienza, assoggettandola “a schemi dialettici, definizioni e principi generali” aprioristicamente formulati9. Queste riflessioni mi spingono a considerare la produzione filosofica pomponazziana come una di quelle precondizioni della rivoluzione scientifica del Seicento10.

Nel pensiero pomponazziano -questo va subito messo in rilievo- vale ciò che ha scritto E. Bloch: “[...] filosofia e teologia avrebbero le stesse possibilità di incontrarsi di uno squalo e di un leone che vivono l’uno in fondo all’oceano e l’altro in mezzo al deserto” (1981, p. 37). È uno scenario, quello pomponazziano, nel quale la fede perde la sua funzione direttrice e orientativa per la ragione, e quest’ultima, completamente svincolata dalla prima, nel suo incedere tiene conto solo a) di ciò che è empiricamente rilevabile e b) di ciò che resiste al vaglio della ragione stessa e che può essere anche contradditorio agli articoli di fede senza per questo essere sottoposto a revisione critica. Proprio quest’ultima affermazione mette in evidenza uno degli aspetti del pensiero pomponazziano più antitetici alla concezione cristiana in generale e tomista in particolare. Nella concezione dell’Aquinate la fede, in quanto “assenso incondizionato alla rivelazione dovuto all’amore di Dio e per Dio”, essendo -sotto questo aspetto- più certa “dell’intelletto e della scienza” risultava essere “criterio e orientamento dell’indagine razionale” (Di Ceglie, 2014, p. 144)11.

La fede non è, nell’attività filosofica del Mantovano, l’intentio profundior della riflessione filosofica così come lo era, invece, per l’Aquinate. È per questo motivo che a buon diritto il Mantovano può dirsi un anticipatore -con tutti i rischi che questa espressione comporta- del Galilei che, è opportuno ricordarlo, seppure in termini diversi ha riaffermato questa separazione nella famosa e già citata lettera-trattato a Madama Cristina di Lorena: “ciò è l’intenzione dello Spirito Santo essere d’insegnarci come si vadia al cielo, e non come vadia il cielo” (Galilei, 2008, p. 61). In questa incisiva affermazione, che Galilei ha appreso dal Cardinale Baronio, è racchiuso in nuce il significato più profondo della battaglia dello scienziato per la libertas philosophandi e la separazione dei campi della fede e della morale (“come si vadia al cielo”) da una lato e della ricerca scientifica dall’altro (“come vadia il cielo”)12.

Risulta anche interessante rilevare che Pomponazzi avanzò le sue tesi nonostante le precise direttive dell’Apostolici Regiminis (1513), che può considerarsi come la potente e decisa risposta della Chiesa alle “tendenze laicizzanti che gli studi umanistici suscitavano” e nella quale è affermata un’importante prescrizione della quale il Mantovano non ha certo tenuto conto13. Malgrado le precise direttive della Chiesa Cattolica e nonostante le aspre reazioni dei suoi contemporanei14. Pomponazzi non ha indietreggiato di un passo, anzi ha continuato negli dopo il 1516 all’approfondimento del tema trattato nel De immortalitate animae a partire da nuove e più vaste prospettive. Una duratura e invincibile determinazione, quella del Mantovano, comprensibile solo se si considera l’intenzione teoretica, e quindi realmente filosofica, del suo filosofare che, come sopra ho cercato di far emergere, non è affatto riducibile ad un mero impegno accademico di traduzione ed esposizione delle opere aristoteliche: il Pomponazzi theoreticus sussume, ma non si riduce al Pomponazzi commentator (Cenacchi, 1987). Il lavoro di esegesi del testo aristotelico è da considerarsi piuttosto come il cavallo di Troia del libero pensiero pomponazziano che, contro il concordismo tomista, ha portato alle estreme conseguenze una visione del mondo e dell’uomo inconciliabile con la prospettiva teologica cristiana. Riservandomi di entrare nel merito della tematica pomponazziana circa i rapporti tra fede e ragione in un’altra occasione di ricerca, vorrei solo osservare come la posizione di Pomponazzi, non somiglia per nulla ad una qualche teoria della doppia verità15. Quella di Pomponazzi, fu, invece, la “semplice constatazione del disaccordo o contrasto fra la filosofia aristotelica e il pensiero cristiano” (Nardi, 1958, p. 96) e ciò è dimostrato da un passo del nono capitolo del De immortalitate nel quale Pomponazzi, a seguito di una dimostrazione finalizzata a mostrare l’appartenenza dell’intelletto umano alle forme assolutamente materiali, scrive:


Nessuna incongruenza sembra compromettere questa soluzione; tutto sembra quadrare con la ragione e con le esperienze; non si propone nessuna credenza, non si dà spazio a niente di fabuloso. (Pomparazzi, 2013, p. 1003)


Ancora una volta ragione ed esperienze sono i due poli di riferimento mediante cui la ricerca di filosofia naturale di Pomponazzi si muove lucidamente e consapevolmente senza tener conto di alcun limite estrinseco alla ricerca razionale stessa. È proprio questa lucida consapevolezza, infatti, sostenuta nonostante le notevoli difficoltà, che giustifica pienamente il giudizio di Ardigò che citiamo in conclusione di questo paragrafo, nella piena convinzione che le linee guida della riflessione pomponazziana siano emerse e abbiano adeguatamente tratteggiato l’immagine di un filosofo davvero spartiacque: autentica


Ma anche nel secondo risorgimento abbiamo un grande concittadino da vantare: abbiamo il più nuovo, il più ardito, il più serio tra i filosofi del periodo più importante dell’epoca della Rinascenza: uno di quegli uomini ai quali l’Europa deve in parte la sua attuale cultura, Pietro Pomponazzi. (Ardigò, 1908, p. 25)16


2. Perché ritornare sullo scontro Pomponazzi-Tommaso?


È stata avanzata l’ipotesi che la scarsa attenzione scientifica riservata a Pomponazzi sarebbe spiegabile a partire da un fenomeno che coinvolge in generale i filosofi italiani. Essi, infatti, sarebbero stati tutti, o quasi, “antagonisti dell’auctoritas ecclesiastica”. Una sorta di damnatio memoriae inflitta dagli ambienti ecclesiastici avrebbe colpito anche Pomponazzi le cui opere, sostiene Cremonesi che è l’autore di questa interpretazione, “oltralpe sarebbero state oggetto di studio e di particolare attenzione”, mentre in Italia sono a ben vedere ridotte “alla necrofilia di qualche barone universitario che impone gavette polverose e improduttive ai giovani dottorandi” (Cremonesi, 2012, pp. 674-682)

Senza entrare nel merito della pertinenza del giudizio di Cremonesi, si potrebbe solo avanzare l’ipotesi che un ritorno sul pensiero di Pomponazzi possa avere una certa utilità per almeno tre ragioni:

1) Lo studio del pensiero del Mantovano ha offerto una preziosa occasione per esaminare in modo dialettico-comparativo l’antropologia di Tommaso d’Aquino verso la quale il Mantovano ha assunto un atteggiamento fortemente critico.

2) La riproposizione di un pensatore e l’invito ad un ritorno al suo pensiero, o su aspetti del suo pensiero (nel caso specifico sulla dimensione antropologica della riflessione pomponazziana17), risulterebbe ingiustificata se non ci fossero alla base anche delle buone ragioni filosofiche, oltre che storiografiche e archeologiche. Nel nostro tempo il problema dell’anima (della sua esistenza, della sua natura e del suo destino) è divenuto ormai obsoleto. A questo proposito il filosofo italiano V. Possenti sostiene che “la Weltanschauung che si diffonde nella cultura [scil. contemporanea] non contempla quasi più un posto per l’anima» e «quando l’ammette è un posto residuale, destinato probabilmente a scomparire” (2008, p. 149). Merito (o colpa) delle avanguardie più materialistiche della ricerca neuroscientifica internazionale, sempre meno propense ad attribuire ad un’anima spirituale quelle funzioni sempre più chiaramente dipendenti dall’attività neurobiologica del cervello umano. Ritengo però che sia possibile ricostruire le linee di questo lento ed inesorabile cammino materialistico che ha escluso sempre più il problema dell’anima dall’orizzonte della riflessione filosofico-antropologica partendo, come suggerisce M. Sgarbi, proprio dal periodo a cavallo tra Cinquecento e Seicento, quando cioè i “trattati sull’immortalità cominciarono a scarseggiare a favore di opere psicologiche più attente all’esame delle funzioni cognitive che agli aspetti più metafisici” (2016, p. 266). Potremmo considerare il De immortalitate animae come una delle pietre angolari di quel paradigma antropologico riduzionista (e materialista) che, ai giorni nostri, ha assunto un ruolo così preminente?18

3) Se è vero che le argomentazioni pomponazziane ricalcano in qualche modo, perlomeno nei loro nuclei teoretici di base, le argomentazioni che ai nostri giorni vengono proposte da filosofi e scienziati appartenenti a quella famosa koiné di riduzionisti e materialisti della quale parla Poppi, e se è vero che l’antropologia tomista ha ancora qualcosa da dirci sulla natura e sul destino dell’uomo, allora la ricostruzione del percorso speculativo pomponazziano e l’analisi delle sue critiche non hanno forse un valore, oltre che storico, anche e soprattutto filosofico? Una simile analisi non può forse porsi come contributo propedeutico per un’eventuale riattualizzazione della filosofia dell’uomo di Tommaso (a partire dai presunti punti deboli messi in evidenza dalle critiche pomponazziane)?


Riguardo al primo punto c’è da dire che nel De immortalitate animae Pomponazzi non si è limitato a decostruire l’antropologia dell’Aquinate mostrandone i punti deboli (pars destruens), ma la sua operazione teoretica si è realizzata nella produzione di un quadro antropologico (pars construens) basato -ecco il punto più interessante- sugli stessi principi filosofici condivisi da Tommaso. Il Mantovano, mediante un’acuta e sottilissima strategia argomentativa cerca infatti di mostrare che la posizione antropologica tomista è in realtà una “opinio theologica” (Poppi, 1970, p. 44) ricca di insolubili contraddizioni interne, e inficiata da esigenze estrinseche (esigenze di fede) rispetto alla pura razionalità filosofica.

Più precisamente, è come se Tommaso non avesse portato fino in fondo le conclusioni filosofico-antropologiche a partire dai principi aristotelici di partenza condivisi peraltro dallo stesso Pomponazzi. Per gli studi tomisti questo tipo di argomentazione risulta certamente preziosa nella misura in cui mette alla prova la catena argomentativa costruita dall’Aquinate facendone risultare tutti i passaggi intermedi dandoci così modo di saggiarne la saldezza teoretica e la coerenza strutturale. Ad essere realmente aristotelico, secondo Pomponazzi, è proprio egli stesso, mentre Tommaso sarebbe solo un credente che, pur sposando i principi aristotelici, li ha poi alterati per esigenze di fede estranee al più genuino discorso razionale. Sarebbe stata proprio la sua fede a dirottare Tommaso facendolo approdare ad una posizione intrinsecamente problematica19.

Il confronto critico tra Pomponazzi e Tommaso possiede una certa rilevanza filosofico-antropologica anche per un’altra ragione. Nella storia del pensiero filosofico occidentale il pensiero tomista costituisce un punto di riferimento estremamente importante per la concezione ufficiale della Chiesa in materia di antropologia20. Numerosi sono infatti gli interventi dottrinali e magisteriali che ne hanno via via ribadito il valore e la coerenza ai più puri principi della fede cristiana e ai principi della teologia cattolica. Già a partire dal Concilio di Vienne (1312) fu asserito con forza l’unione sostanziale dell’anima razionale col corpo, contro ogni forma di dualismo antropologico (Marranzini, 1973, p. 373). Sulla stessa linea fu l’orientamento assunto dal Concilio Lateranense V (1513) nel quale, con un’inequivocabile linguaggio aristotelico-tomista, l’anima fu definita “immortale, distinta numericamente per ogni uomo e “veramente per se stessa forma del corpo umano” e lo stesso principio fu ribadito anche dal Concilio Vaticano I (p. 374). A questo proposito è emblematico ricordare come anche nella lettera enciclica Aeterni Patris21 (4 agosto 1879) Leone XIII ha sottolineato la presenza del Dottore Angelico in tutti i Concili Ecumenici, in modo vivo e spiritualmente pregnante e non semplicemente attraverso le sue opere: “Nei Concili di Lione, di Vienna, di Firenze e del Vaticano si direbbe che Tommaso abbia assistito e quasi presieduto alle deliberazioni ed ai decreti dei Padri, combattendo con invincibile valore e con lietissimo successo contro gli errori dei Greci, degli eretici e dei razionalisti”. Durante il Concilio Tridentino, invece, i Padri hanno voluto “che nel mezzo dell’aula delle adunanze, insieme con i codici della Sacra Scrittura e con i decreti dei Romani Pontefici, stesse aperta, sull’altare, anche la Somma di Tommaso d’Aquino per derivarne consigli, ragioni e sentenze”.

Inoltre, è A. Livi a ricordarlo, Tommaso fu canonizzato cinquant’anni dopo la sua morte, avvenuta nel 1274, proprio per il suo contributo sapienziale, di ordine sia filosofico che teologico, e non quindi per “penitenze e fatti straordinari”: questa fu l’opinione dei quarantadue testimoni del processo di canonizzazione (Livi, 1997, p. 182). Nel 1567 fu inoltre proclamato Dottore della Chiesa e nel 1918 nel Codex iuris Canonici di Benedetto XV fu inserita la norma secondo la quale “il metodo, la dottrina e i principi di Tommaso d’Aquino” sarebbero dovuti fungere da guida per la formazione teologica e filosofica (p. 183).

Da un lato, dunque, si erge Tommaso d’Aquino, la cui visione dell’uomo forma il quadro dell’antropologia cristiana (Smith, 1966) e dall’altro lato Pomponazzi che, come ho già anticipato e come cercherò di mostrare puntualmente nel prossimo paragrafo, è uno dei promotori di quel cambiamento radicale avuto nella modernità dovuto in gran parte alla rivoluzione scientifica. La ricostruzione di questo scontro ha pertanto un valore filosofico assai rilevante nella misura in cui diviene occasione di riflessione sull’impatto frontale tra due visioni radicalmente incompatibili, seppur provenienti dalla stessa scuola aristotelica, ma soprattutto tra due concezioni dell’uomo reciprocamente escludentesi oggi come allora.

Prima di chiudere questo primo paragrafo per presentare la fisionomia intellettuale di Pomponazzi, desidero far riferimento ad un elemento comune nel pensiero tomista e in quello pomponazziano: il rispetto dell’esperienza sensibile. Entrambi i pensatori, pur nella diversità delle loro visioni, hanno valorizzato fino in fondo i dati dell’esperienza. In questo modo hanno fatto sì che la teoria antropologica seguisse dal fatto umano, evitando così di forzare quest’ultimo affinché entrasse nelle strette maglie di una teoria messa a punto aprioristicamente. In questo modo ci troviamo di fronte due posizioni sì irriducibili ed incompatibili, ma che pretendono entrambe di essere due fedeli letture del reale. In qualche modo si potrebbe sostenere che queste due visioni hanno un forte impianto fenomenologico22: entrambi cercano di proporre due quadri descrittivi dell’uomo coerenti all’esperienza quotidiana, esperibile da ciascun uomo. Entrambi avversano l’averroismo23 ed entrambi condannano la concezione dualistica platonica, considerando queste prospettive antropologico-filosofiche incapaci di valorizzare quello che si potrebbe definire, sia per Pomponazzi, sia per Tommaso, come il primo principio dell’antropologia: l’unità dell’uomo.


3. Tra Platone, Averroè e Tommaso. Strategia argomentativa

e architettura teoretica del Tractatus


Il Tractatus de immortalitate animae di Pomponazzi si compone di quindici capitoli preceduti da un breve ma molto significativo proemio. In esso il Mantovano ci dà alcune preziosissime indicazioni e ci racconta che un giorno, il suo fedele discepolo Fra’ Gerolamo Natale di Ragusa, sempre presente al suo capezzale durante i periodi di malattia (peraltro non rari per Pomponazzi), gli pose tale questione:


Carissimo maestro, quando nei giorni scorsi ci esponevi il I De coelo, giunto ad un punto in cui Aristotele si ingegna di dimostrare con numerose argomentazioni che l’ingenerato e l’incorruttibile sono convertibili, ci hai detto che non ritenevi per niente in accordo con le affermazioni di Aristotele la posizione di S. Tommaso sull’immortalità dell’anima, sebbene tu non dubitassi affatto circa la sua verità e solidità. Perciò, se per te non è gravoso, desidererei che mi facessi comprendere soprattutto due cose: la prima è di farci sapere che cosa pensi in questa materia, escludendo la rivelazione e i miracoli e restando entro i limiti puramente naturali; la seconda è di farci sapere quale pensi sia stato nella medesima materia il pensiero di Aristotele. (Pomponazzi, 2013, p. 927)


V. Perrone Compagni ritiene il significato e il valore da attribuire al Proemio del De immortalitate. Secondo la studiosa, infatti, “non c’è da prestare eccessivo credito alla lettera di dedica del Trattato sull’immortalità dell’anima, che lo presenta come il frutto di una discussione casualmente iniziatasi tra amici al capezzale dell’autore malato” (Pomponazzi, 1999, p. v). La diffidenza della studiosa è motivata dal fatto che il De immortalitate, pubblicato nel 1516, “è il risultato di una meditazione sulla questione dell’anima che lo teneva impegnato ormai da quasi venti anni”, e le richieste di Fra’ Gerolamo assumono, pertanto, un valore piuttosto letterario.

Il De immortalitate, insieme al Principe di Machiavelli, è stato definito come uno “tra i libri più scandalosi e irreligiosi del Rinascimento” (Poppi, 1970, p. 29)24. Questo giudizio sembra cogliere nel segno, alla sola condizione, però, d’intendere l’aggettivo irreligioso non come un bieco tentativo di screditare e infangare la religione cristiana, ma come una critica puntuale al tentativo di fondare razionalmente la credenza cristiana sull’immortalità dell’anima. Le argomentazioni pomponazziane hanno in verità anche un carattere piuttosto sistematico. Esse, infatti, non sono riducibili a semplici argomentazioni critiche mosse in modo estemporaneo ad una tematica complessa come quella dell’immortalità. Al contrario, il Mantovano ha riflettuto su questo tema per non pochi anni e il De immortalitate animae segna proprio un consapevole momento di passaggio tra quella che Di Napoli ha definito come il periodo “della scepsi dell’immortalità”, vale a dire il primo periodo della riflessione pomponazziana che va dai primi anni fino al 1509 (periodo padovano), al secondo periodo riflessivo, quello della “teoresi dell’immortalità” (periodo bolognese, che va dal 1510 al 1525) (Di Napoli, 1963, p. 228). Sebbene altri autori abbiano negato un’evoluzione del pensiero pomponazziano25, sembrerebbe innegabile il fatto che l’argomentare del Mantovano non sia né casuale né privo di quella sistematicità filosofica che contraddistingue le più robuste, meditate e durature riflessioni filosofiche. Allo stesso modo anche gli argomenti avanzati nel De immortalitate animae mostrano inequivocabilmente un intento positivo, finalizzato cioè alla (di)mostrazione della mortalità dell’anima. In altri termini, Pomponazzi non pare essersi limitato -come crede Kristeller (1962, p. 29)26- alla semplice constatazione dell’impossibilità di una fondazione in via Aristotelis della tesi cristiana dell’immortalità dell’anima, ma si è spinto ben oltre approdando ad una concezione mortalista basandosi su una struttura argomentativa ben architettata27.

A proposito del Proemio del De immortalitate animae va anche sottolineato un altro aspetto, con ogni probabilità simbolico, costituito dalla figura di Fra’ Girolamo, vale a dire colui che - stando a quanto ci racconta lo stesso Pomponazzi - pose le domande fornendogli l’occasione della stesura dell’opera. Il frate domenicano chiamò in causa la posizione di Tommaso d’Aquino onde farne rilevare tutta la problematicità di fondo. Secondo Di Napoli Fra’ Girolamo gioca un ruolo simbolico nel Tractatus. Egli era, secondo lo studioso, “l’umile frate che pur simboleggiava per il Pomponazzi la rottura del fronte domenicano” (Di Napoli, 1963, p. 242). Infatti qualche anno prima, precisamente nel 1510, venne dato alle stampe il commento al De anima di Tommado de Vio (card. Gaetano), che all’epoca era il Generale dell’Ordine dei Domenicani. Nel suo commento il Gaetano sostenne che “la separabilità [scil. dell’anima] è, in sede aristotelica, impossibile” (p. 218) e negli anni a seguire, soprattutto dopo alla promulgazione dell’Apostolici Regiminis il Cardinale mantenne sempre salda l’idea che una giustificazione razionale dell’immortalità dell’anima in via Aristotelis fosse irrealizzabile: bisognava affidarsi alla fede per essere certi della sopravvivenza dell’anima dopo la morte. In questo modo l’opera del Gaetano aprì la via a tutti gli aristotelici puri desiderosi di interpretare Aristotele a prescindere dal filtro tomista28 e così anche Pomponazzi con il De immortalitate animae Pomponazzi non fece altro che percorrere la via che già il card. Gaetano aveva in un certo senso aperto e percorso.

Volgendo l’attenzione alla struttura interna del trattato pomponazziano vorrei subito far rilevare come essa risponda ad una precisa esigenza teoretica: prendere in esame e confutare, passo dopo passo e, soprattutto, secondo un preciso ordine tutte quelle dottrine che regnavano al suo tempo “e che si proponevano di spiegare come mai l’uomo sia composto di corpo e anima e come l’anima a sua volta sia insieme sensitiva ed intellettiva” (Olgiati, 1924, p. 534). A questo proposito il secondo capitolo del De immortalitate risulta preziosissimo, perché ci offre un completo, seppur schematico, quadro sinottico delle diverse dottrine con le quali polemizzerà Pomponazzi (tomisti, averroisti e platonici):


Averroè

Platone

Tommaso

Pomponazzi

Una sola per il genere umano è l’anima immortale e moltiplicate e distribuite per tutti gli uomini sono le anime mortali

Sia l’anima mortale sia quella immortale appartengono individualmente ad ogni singolo uomo che perciò avrà sia un’anima mortale sia una immortale

L’unica anima dell’uomo è immortale in assoluto e mortale in senso relativo

L’unica anima dell’uomo è mortale in senso assoluto e immortale rispetto ad alcunché in senso relativo

Posizione ritenuta da Pomponazzi «fatua et bestialis»

Per Pomponazzi questa posizione non spiega l’unità dell’uomo

Pomponazzi ritiene che sia filosoficamente infondata («opinio theologica»)

Posizione coerente sia ad alcuni principi dell’aristotelismo sia ai principi della ratio naturalis



Ciò che interessa al Mantovano -lo dichiara esplicitamente proprio all’inizio del secondo capitolo ed è un aspetto importantissimo della sua riflessione- non è tanto il rapporto tra l’anima e il corpo (il mind-body problem nel linguaggio contemporaneo29) quanto piuttosto la natura stessa dell’anima30. L’indagine filosofica di Pomponazzi, quindi, si è concentrata prevalentemente -anche se non esclusivamente- sulla natura della forma e non, invece, su quello che nell’ontologia aristotelica è chiamato sinolo (Metaph., VII, 15, 1039 b 20 e sgg), cioè l’unità di forma e materia. È un ricerca, quella Pomponazzi, tutta interna all’anima umana.

L’impostazione per la risoluzione del problema data dal Mantovano è perfettamente in linea con l’ontologia aristotelica così com’è delineata nel libro Z della Metafisica. In questo fondamentale libro dedicato al tema della sostanza (analisi che continua anche nel libro H), lo Stagirita individua preliminarmente le cinque note costitutive della sostanza31, e poi passa ad una indagine approfondita finalizzata alla comprensione di quale, tra la materia, la forma e il sinolo, realizzi il massimo grado di sostanzialità. Per la presente ricerca occorre tenere ben presente la quarta, l’unità, perché sarà la caratteristica in riferimento alla quale il Mantovano interpreterà come ripugnanti alla genuina dottrina aristotelica (e ai principi della ratio naturalis) le interpretazioni di Averroè e Tommaso e la posizione dei platonici.

Se la forma è, aristotelicamente, unitaria, anzi, “è unità per eccellenza, perché è principiò che dà unità alla materia che informa” allora non si comprende bene, ma anzi diventa totalmente oscuro, come si possano predicare della forma dell’uomo, cioè dell’anima, la mortalità e l’immortalità. L’impostazione della ricerca di Pomponazzi, almeno a questo livello, è quindi fedelmente aristotelica: oltre ad essere ingenerabile ed incorruttibile, la forma è anche irriducibile ad altre parti più originarie. Se la forma, infatti, fosse la risultante di un’aggregazione di altre componenti più elementari, si dovrebbe ricorrere a qualche altra cosa per comprendere come tali parti siano in qualche modo unite a formare una forma. Da quest’ultima considerazione allo scacco della reductio ad infinitum il passo è breve (bisognerebbe immaginare una forma degli elementi della forma, e così via all’infinito). Inoltre, in Metaph., H 6 Aristotele, concludendo la sua indagine sulla sostanza (sensibile), ribadisce alcune fondamentali acquisizioni della sua ricerca che vale la pena prendere qui in considerazione. In 1045 a 8-20 lo Stagirita spiega che “di tutte quante le cose che hanno più parti e che non sono un tutto come un ammasso, ma vi è un certo intero al di là delle parti, vi è una qualche causa, dal momento che anche nei corpi, in alcuni il contatto è causa del loro essere un’unità, in latri la viscosità o qualche altra affezione di questo tipo”32. Secondo Aristotele i platonici sarebbero incorsi in difficoltà insolubili. Nella definizione di uomo, ad esempio, compaiono, per così dire, due parti: uomo e bipede. Impossibilitati a pensare questi due termini come aspetti di un ente unitario, hanno invece pensato l’uomo come il risultato di una doppia partecipazione: all’Uomo in sé e al Bipede in sé. Sulla base della filosofia platonica, quindi, l’uomo - per restare all’esempio - non sarebbe altro che un «ammasso» o una giustapposizione di parti, non essenzialmente strutturate in unità. In questo modo anche la definizione di uomo - ma, in generale, ogni definizione - non sarebbe altro che un discorso unitario per collegamento» proprio come l’Iliade (l’esempio è di Aristotele), e non invece un discorso costituito “da parti formanti unità”33. Dalla prospettiva dell’ontologia aristotelica e, precisamente, nell’orizzonte delle sostanze sensibili (nelle quali s’inserisce anche l’uomo evidentemente), “la materia ultima e la forma sono una medesima e unica cosa, l’una in potenza e l’altra in atto, per cui il ricercare qual è la causa della loro unità è simile al ricercare qual è la causa del fatto che la cosa è una”. Alla giustapposizione (ammasso) di parti subentra, nella visione aristotelica, la strutturale unità.

In Metaph., Z 17, 1041 b 11 e ss. lo Stagirita ci dice che la forma non è un ulteriore elemento che si aggiunge agli componenti per la costituzione di una determinata cosa, quasi che la sillaba ba, per riportare l’esempio di Aristotele, fosse il risultato di b + a + forma. Se così fosse bisognerebbe ipotizzare l’esistenza di un’altra forma per tenere unite le tre componenti (b + a + forma + ulteriore forma), e così via di seguito all’infinito. Considerando il quadro aristotelico che, seppur sommariamente, ho appena ricostruito diventa più chiara l’impostazione della ricerca sull’anima data da Pomponazzi nel De immortalitate. A partire dalle considerazioni sul concetto di forma e su quello di sinolo, infatti, risultano evidenti i motivi per cui, pur nelle differenze, sia l’antropologia platonica sia quella averroistica siano risultate contradditorie rispetto alla vera posizione aristotelica. Sia gli averroisti, sia i platonici “convengono nello scindere l’unità dell’anima in due” e “nello stralciare il senso dallo intelletto, rompendo la personalità umana in due frammenti, non che diversi, opposti” (Fiorentino, 2008, p. 157). Si può quindi affermare che la quarta caratteristica costitutiva della sostanza, cioè l’unità, resta nel De immortalitate il criterio imprescindibilmente seguito per la valutazione della coerenza alla concezione aristotelica degli autori via via criticati.

A questo proposito bisogna anche rilevare che l’ordine delle argomentazioni non è causale. Sorprendentemente, infatti, Pomponazzi si affida proprio a Tommaso d’Aquino per criticare le antropologie di marca platonica e averroistica, ma ecco il punto: saranno però le stesse ragioni che Tommaso ha usato contro l’averroismo e il platonismo a porre le basi del rifiuto anche dell’antropologia tomista34. Questo sottile gioco dialettico, volto a porre “Tommaso contro Tommaso” messo in atto dal Mantovano con una certa maestria, è stato ben messo in luce da A. Petagine il quale ha giustamente notato come il confronto con Tommaso comincia solo a partire dal settimo capitolo del De immortalitate animae. Questo aspetto è tutt’altro che secondario e “non è affatto incoerente con l’intento, già espresso nel proemio, di mettere al centro il confronto con Tommaso” (Petagine, 2010, pp. 48-49). I primi capitoli del De immortalitate, -precisamente i capitoli terzo, quarto, quinto e sesto- hanno di mira sì Averroè e Platone, ma solo per preparare il terreno alla critica dell’antropologia del Dottore Angelico. È proprio mostrando le ragioni -di marca tomista- contrarie alla frantumazione dell’essenza umana che Pomponazzi cercherà poi di far collassare l’Aquinate, sotto il peso dei suoi stessi argomenti.


Conclusioni: Sul significato della critica pomponazziana


Aristotele, Tommaso e Pomponazzi sono pensatori che, sotto il profilo antropologico, condividono uno stesso principio: l’unitarietà dell’uomo a tutti i livelli. Per loro vale quanto ha scritto H. Seidl, e cioè che “l’unità dell’uomo è il fatto iniziale evidente, dal quale l’indagine filosofica procede, per ricercare i principi costitutivi dell’uomo” (Seidl, 1991, p. 36). Detto in altri termini: per questi pensatori l’unità dell’uomo è il punto di partenza e non quello d’arrivo dell’indagine antropologica. Nel De anima Aristotele lo ha ribadito con forza e chiarezza: “non si deve cercare se l’anima e il corpo costituiscono un’unità, come neppure se la costituiscono la cera e la figura né, in generale, la materia di ciascuna cosa e la cosa di cui essa è materia” (II, 1, 412 b 7 e sgg). Allo stesso modo anche Tommaso, come giustamente ha rilevato la Vanni Rovighi, ha costruito una concezione antropologica cercando di rispettare fedelmente ogni aspetto della realtà dell’uomo, adottando un approccio fenomenologico e non sistematico, rispettando “tutti gli aspetti della realtà che l’esperienza ci mette dinanzi” (Rovighi, 1957, p. 356).

L’esperienza, tuttavia, ci mette di fronte un corpo vissuto (Leib) grazie al quale esperiamo continuamente, e in modo difficilmente districabile, emozioni, percezioni, sentimenti, pensieri, immagini, stati di piacere e di dolore, appetiti di diversa natura. In questo complesso flusso costante di esperienze percettivo-sensoriali, emotivo-sentimentali e neotico-spirituali le distinzioni filosofiche chiare e distinte non possono che arrendersi ad ogni tentativo di chiarificazione scientifica volta a selezionare, dividere, distinguere e isolare. È proprio quando il pensiero tenta la vana impresa di distinguere ciò che nella realtà dell’esperienza intrapsichica è unito indissolubilmente che la filosofia diventa non più una fedele descrizione del mondo ma una incomprensibile e insostenibile teoria astratta sull’essere umano.

Qui sta l’origine del problema antropologico dell’unitarietà umana: se ogni pensiero umano è parte di quel flusso continuo (fenomenologico) di immagini, sentimenti e percezioni, che in modo inestricabile contraddistinguono la vita interiore dell’uomo e se, per converso, anche ogni emozione esperita dall’essere umano si porta dietro, automaticamente, pensieri, sentimenti e sensazioni corporee, com’è possibile allora distinguere la dimensione spirituale da quella corporale? E ancora, com’è possibile scindere il momento intellettivo da quello, invece, sensitivo? La distinzione sarà solo ‘di ragione oppure corrisponderà davvero ad una compartimentazione ontologica dell’essenza umana?

La posizione di Tommaso sull’unitarietà dell’uomo, ad esempio, è tanto chiara quanto problematica:

a) “L’uomo non è soltanto anima, ma un insieme che risulta composto di anima e di corpo” (Summa theologiae, I, q. 5, art. 4);

b) “L’intelletto, cioè il principio dell’operazione intellettiva, è la forma del corpo umano” (Summa theologiae, I, q. 7, art. 1);

c) «Nell’uomo esiste un’unica anima, che è sensitiva, intellettiva e vegetativa” (Summa theologiae, I, q. 76 art. 3);

d) “È impossibile che una disposizione accidentale serva di collegamento tra il corpo e l’anima, o tra una qualsiasi forma sostanziale e la propria materia” (Summa theologiae, I, q. 76, art. 6);

e) L’anima umana “come forma deve trovarsi nel tutto e in ogni parte del corpo. Essa infatti non è una forma accidentale del corpo, ma sostanziale. Ora, la forma sostanziale non è solo perfezione del tutto, ma di ciascuna delle sue parti. Infatti il tutto risulta dall’insieme delle parti, e quindi la forma di un tutto che non conferisse l’essere alle singole parti sarebbe quella specie di forma che viene detta composizione e ordine, come la forma di una casa: e una tale forma è accidentale. L’anima invece è una forma sostanziale: deve quindi essere forma e atto non solo del tutto, ma di ogni sua parte” (Summa theologiae, I, q. 76, art. 8).


Nonostante questi cinque chiari principi dell’antropologia tomista che ci riconfermano l’unità dell’uomo a tutti i livelli, Tommaso riconosce o, come dirà Pomponazzi, è spinto dalla sua fede a riconoscere nell’uomo una capacità intellettiva in grado di trascendere il corpo manifestando la chiara possibilità dell’anima umana di possedere, almeno sul piano intellettivo, una capacità di operare senza di esso. Pertanto: è vero che ogni forma sostanziale informa immediatamente e senza intermediari il corpo, ed è vero che questa unione sinologica è tanto originaria e fondamentale che è possibile isolare forma e materia solo concettualmente. È vero inoltre che la forma è principio di unità della sostanza ed è intrinsecamente unitaria in sé, ed è altrettanto vero che l’anima umana, in quanto forma sostanziale rispetta tutti questi requisiti di marca aristotelica. Ciononostante la forma anima, che fino alle facoltà sensitive informa il corpo umano, nella sua operazione intellettiva trascende radicalmente il corpo e si attesta come trait d’union tra il cielo e la terra, facendo rientrare dalla finestra il dualismo mandato fuori con le critiche ad Averroè e Platone35. Ci sono quindi alcuni gravi elementi di ambiguità in questo quadro antropologico, probabilmente già noti allo stesso Tommaso. Si comprende come la critica del Mantovano non sia semplicemente una mera disputa filosofica di carattere accademico. Essa fu senz’altro una disputa filosofica, peraltro estremamente sottile e guerreggiata fino in fondo tra le pieghe del De immortalitate animae, ma certamente non fu solo questo. Fu, prima di ogni cosa, uno scontro tra due visioni del mondo combattuto proprio sul terreno più difficile: quello antropologico. Da un lato abbiamo una concezione dell’uomo, quella tomista che, pur concedendo una certa importanza e dignità al corpo, finisce comunque per privilegiarne l’aspetto formale e spirituale. Dall’altro, invece, abbiamo un tentativo- parlo di Pomponazzi, evidentemente -di riconduzione dell’uomo nel tessuto fisico-organico della natura. Giustamente Cremonensi sostiene che nella visione di Pomponazzi l’uomo non è più considerato come “la creatura prediletta del mondo”, ma come parte del mondo (Cremonesi, 2012, p. 486). Per usare liberamente le emblematiche espressioni utilizzate da Todisco, si potrebbe dire che le argomentazioni filosofiche del De immortalitate animae spingono l’ago della bilancia verso una somatizzazione dell’anima, allontanando da quella visione incentrata sulla psichicizzazione del corpo che in qualche modo invece emerge dalla prospettiva tomista36. L’espressione somatizzazione dell’anima mi sembra davvero significativa nella misura in cui fa emergere non tanto la preponderanza dell’aspetto somatico rispetto a quello formale, quanto piuttosto una riduzione di quest’ultimo al primo senza con ciò negare l’esistenza di un principio organizzativo e operativo del corpo, un principio cioè in grado di vivificare e di permettere l’attuazione di alcune operazioni. Tale principio formale però, sebbene sia ben di più della mera somma delle parti del corpo, non è qualcosa oltre esse. Pomponazzi, infatti, non ha negato l’esistenza di un principio organizzativo ed operativo nell’uomo, ma ha negato solo che tale principio trascenda il corpo, sopravviva al corpo e sia capace di operazioni immateriali, dato che l’operazione non può essere più astratta dell’essenza che la produce37.


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1 Tra tutti i luoghi delle opere tomiste segnalabili si veda ad esempio la quaestio 9 delle Quaestiones disputatae de anima nella quale l’Aquinate sostiene: “Sic igitur, cum anima sit forma substantialis quia constituit hominem, in determinata specie substantiae, non est aliqua alia forma substantialis media inter animam et materiam primam; sed homo ab ipsa anima rationali perficitur secundum diversos gradus perfectionum, ut scilicet sit corpus, et animatum corpus, et animal rationale”.

2 A questo proposito si veda la quaestio 1 delle Quaestiones disputatae de anima.

3  “Il motivo sottostante di tale sdegnata condanna è costituito soprattutto agli occhi del Pomponazzi dalla innaturale e assurda divisione introdotta dal dualismo averroista nell’unità del singolo individuo senziente e intelligente. Poiché in questa opinione l’immortalità dell’intelletto viene garantita mediante la sottrazione al singolo uomo della sua dignità più alta, cioè l’atto personale del pensare, trascinando a delle conseguenze del tutto impossibili sul piano metafisico e gnoseologico; conseguenze da cui gli averroisti ritengono di poter evadere, ma con distinzioni puramente verbali”. (p. 42)

4 Sul discorso dell’Ardigò si veda Poggi, 2010, pp. 435-477.

5 Sul punto si veda Cassirer, 2012, p. 119. Si veda anche Fiorentino, 2008, p. 409.

6Mondin ha definito chiusa l’antropologia del Mantovano: “All’antropologia aperta a un mondo superiore immortale ed eterno di Ficino e Pico, Pomponazzi contrappone un’antropologia chiusa dentro la sfera di questo mondo materiale, transitorio e temporale. A giudizio di Pomponazzi il pensiero umano è necessariamente orientato verso il mondo sensibile e inseparabilmente legato a lui”. ( 2002, p. 353)

7  “Da una parte il succedersi di soluzioni differenti si sviluppa in armonia con l’orientamento complessivo del De Incantationibus, interessato a spostare la riflessione circa le meraviglie naturali dal piano della causalità sublunare a quello della causalità stellare; dall’altra parte, il procedere per accumulazione di ipotesi è coerente con la premessa metodologica dell’indagine fisica pomponazziana: poiché le potenzialità della natura ci sono in gran parte ancora ignote, il tentativo umano di rintracciare le cause in rebus naturalibus giunge a formulare una serie di congetture verosimili, ma non riesce a organizzarsi come scienza certa. La caratterizzazione del sapere naturale come ricerca inconclusa, che si muove tra supposizioni, incertezze, ripensamenti e sviluppi successivi, è dichiarata in più occasioni e trova sistematica applicazione anche sul piano espressivo: costantemente il De Incantationibus introduce le varie solutiones facendo ricorso a una terminologia congetturale (non irrationabile est, verisimile est, fortasse)”. (Perrone Compagni, 2006, pp. 12-13)

8P. Rossi sostiene che nel Quattrocento, soprattutto negli scritti degli artisti e degli sperimentatori, si è affermata “l’immagine del sapere come costruzione progressiva” in forte contrapposizione al “sapere dei maghi e degli alchimisti e all’immagine del sapere che è caratteristico della tradizione ermetica” secondo cui tradizione “la verità non emerge dalla storia e dal tempo: è la perenne rivelazione di un logos eterno. La storia è un tessuto solo apparentemente vario: in essa è presente una sola immutabile sapientia” (2005, p. 48).

9  “La dignità della riflessione filosofica -unico elemento di distinzione dell’uomo rispetto alle bestie- non deriva affatto dalla certezza del sapere al quale può pervenire, almeno in determinati ambiti; essa è invece sempre riaffermata dalla disposizione ad affrontare ogni volta da capo l’esperienza della ricerca, come -nella similitudine pomponazziana- il navigatore che ha conosciuto il naufragio si rimette sempre di nuovo in mare e conosce l’arte della navigazione meglio di colui che non ha mai navigato”. (Ramberti, 2010, p. 324)

10B. Kieszkowski (1936, p. 151) a individuato tre fondamentali aspetti della corrente naturalistica rinascimentale della quale Pomponazzi fu “il primo rappresentante”: 1) L’oggetto della conoscenza è la natura, cioè la materia; 2) La filosofia si distingue nettamente dalla teologia, e la filosofia della natura dalla metafisica; 3) La filosofia della natura rinuncia alle trattazioni dei problemi della metafisica e della psicologia speculativa.

11  “criterio perché, in caso di conflitto, in base ad esse le verità di ragione vanno rifiutate e l’indagine razionale va ripresa da capo; come orientamento perché il credente desidera confermare le verità di fede e a ciò finalizza la propria ricerca”.

12 Sul punto si veda Damanti (2010).

13  “La costituzione chiude prescrivendo ai sacerdoti, saecularis vel regularis, il programma di studio che, proprio per il “timore degli effetti corrosivi della filosofia”, vieta di studiare quest’ultima, come pure la poesia, se accanto non vi sia lo studio della teologia e del diritto canonico” (Bucci e Piatti, 2014, p. 388).

14Nel 1517 il vescovo suffraganeo di Mantova Ambrogio Fiandino inveì in modo decisivo contro il Trattato di Pomponazzi e “si recò espressamente da Agostino Nifo perché lo confutasse e, non contento, stese delle Disputationes contra assertorem mortalitatis animae secundum naturale lumen rationis che uscirono a Mantova nel 1519” . Nello stesso anno, Antonio Contarini, Patriarca di Venezia, ricevuta la notizia del libro, lo condannò e decise di dare alle fiamme il Trattato nella pubblica piazza e vietarne la vendita. Nel 1518 il Maestro di Palazzo Silvestro Mazzolini da Prierio indusse il Papa Leone X a muovere contro Pomponazzi. La sollecitazione venne accolta dal Papa che il 13 giugno del 1518 intimò a Pomponazzi di attenersi all’ortodossia del Laterano per evitare il processo. A quest’anno risale la famosa Apologia di Pomponazzi. Ecco il precetto del Pontefice: “Petrus de Mantua asseruit quod anima rationalis secundum propriam philosophiam et mentem Aristotelis sit seu videatur mortalis, contra determinationem Concilii Lateranensis; papa mandat ut dictus Petrus revocet; alias contra ipsum procedatur, 13 iunii 1518” . Il 27 ottobre del 1518 venne pubblicato l’esteso volume di Agostino Nifo, il De immortalitate, in cui prese posizione contro le tesi di Pomponazzi. Il filosofo mantovano, quindi, in poco tempo, fu costretto ad approntare un volume molto denso, il Defensorium, che vedrà la luce a Bologna il 18 maggio 1519. Nel 1519 le autorità ecclesiastiche ostacolarono la pubblicazione del Defensorium. In particolare l’inquisitore Giovanni Torfanini e il Vicario Generale Alessandro de Peracinis chieserò che la pubblicazione libro di Pomponazzi fosse accompagnata una confutazione delle sue tesi. Solo grazie all’intercessione amichevole di Crisostomo Javelli, insigne teologo domenicano, il Defensorium andò alle stampe senza alcuna ritrattazione delle sue tesi.

15Ho affidato ad una casa editrice italiana (Limina Mentis) uno studio incentrato proprio su questa tematica Gallo F. L. (in corso di edizione), Autonomia e indipendenza della ragione in M. Murzi, I. Pozzoni (a cura di), I moderni orizzonti della scienza e della tecnica V, Villasanta: Limina Mentis Editore, in corso di edizione. La complessità e la vastità della tematica rende sconveniente anche solo un riferimento ad essa (tante sarebbero le precisazioni e le considerazioni da fare sul punto). Vorrei solo chiarire, in modo estremamente telegrafico, che non considero quella di Pomponazzi una teoria della doppia verità nella misura in cui tutte le dichiarazioni di fede presenti nel quindicesimo ed ultimo capitolo del De immortalitate animae, non sono altro che vuote formule giustapposte ad un’architettura argomentativa di impianto filosofico-mortalista basata sull’unica idea veramente centrale del pensiero pomponazziano: solo le verità di ragione sono autentiche e fondate, e i contenuti di fede non possono vantare alcuna pretesa veritativa davvero valida.

16Simili a quelle dell’Ardigò sono le conclusioni di G. Di Napoli: “Per vero dire, e nonostante le apparenze, il Pomponazzi non si limita a fare esegesi aristotelica, ma agita il problema dell’anima sul piano teoretico; nel suo pensiero fede e ragione son due parallele, interdipendenti; in buona o in mala fede, egli ritiene la tesi della doppia verità, anche a costo di frequenti ossequi alla fede e alla tradizione cristiana, per la quale il problema dell’anima è, a suo parere, un problema neutrum. Tale posizione del Pomponazzi risulta chiara anche dagli altri scritti, come il De nutritione e il De Incantationibus; inoltre, secondo la tradizione dell’Oroscopo delle religioni. Insomma, troviamo in Pomponazzi le premesse dell’illuminismo europeo nelle istanze del naturalismo teoretico e del riconoscimento puramente pragmatico all’elemento religioso o teologico”. (Di Napoli, 1964, p. 1893).

17Sembra condivisibile la tesi di F. Olgiati secondo cui tutte le opere filosofiche pomponazziane non sono altro che un tentativo di analizzare la natura umana da diverse prospettive (Olgiati, 1924, pp. 532-533).

18A. Poppi ritiene di si, e sostiene che “leggendo alcune sue pagine [scil. di Pomponazzi] pare di respirare l’aria della koiné delle neuroscienze dei nostri giorni” (2010, p. 39).

19Mi sia concessa una breve digressione. Bisogna sottolineare che Pomponazzi è sì un aristotelico, ma sui generis. Questa è una tesi che ha avuto dei sostenitori autorevoli, ma alla quale bisogna fornire ulteriori prove. Il Mantovano è, in verità, un pensatore realmente originale, irriducibile alla figura del mero commentatore dei testi dello Stagirita. Fin qui nulla di strano, se non fosse che anche Tommaso d’Aquino è un pensatore emblematicamente originale, sebbene Pomponazzi lo consideri -consapevolmente, al fine di agevolare le sue argomentazioni critiche- un mero interprete dello Stagirita. Grazie a questa operazione, non proprio onesta, Pomponazzi ha poi voluto mostrare l’incoerenza del commentatore Tommaso con i principi filosofici aristotelici. Di questa manovra pomponazziana non parlerò in questo studio, e mi riserverò di parlarne in un’altra occasione, ma era importante anticiparla al fine di fornire un quadro completo, almeno nelle sue linee generalissime, del confronto Pomponazzi-Tommaso. Confronto che, è bene ribadirlo, è irriducibile ad una diatriba tra due meri commentatori di Aristotele, ma che invece chiama in causa due visioni realmente filosofiche e incompatibili, sebbene costruite a partire dagli stessi principi aristotelici.

20La posizione dell’Aquinate sarebbe quindi considerabile sotto molti aspetti come la posizione ufficiale e definitiva della Chiesa (Vaccaro, 2001, p. 87).

21La lettera enciclica è consultabile al seguente indirizzo: http://w2.vatican.va/content/leo-xiii/it/encyclicals/documents/hf_l-xiii_enc_04081879_aeterni-patris.html.

22È stata S. Vanni Rovighi ad aver opportunamente messo in rilievo l’intento fenomenologico e non sistematico della costruzione antropologica dell’Aquinate (si veda a questo proposito Rovighi, 1957, p. 356).

23Pomponazzi giudica la concezione averroista come fatua et bestialis (Poppi, 1970, p. 41).

24Cfr. la citazione del De immortalitate animae curato da G. Gentile.

25Poppi ha negato l’evoluzione del pensiero pomponazziano osservando che “nel pensiero del Pomponazzi non si può parlare né di un passaggio da una posizione immortalista a quella di Alessandro, né di una evoluzione in senso più mitigato, come di un superamento di una fase scettica e sospensiva verso una decisione alfine di tipo mortalista”, perché “nel commento al De anima del 1503-04, il Pomponazzi appare già decisamente attestato sulle posizioni teoretiche del 1516” (1970, p. 90).

26  “Egli [Pomponazzi] non cercò di provare che l’anima era mortale, come è stato affermato dai suoi critici contemporanei e moderni. Ma sappiamo dai suoi scritti anteriori sull’argomento [...] che egli conosceva Alessandro d’Afrodisia che professò tale opinione, e che fu impressionato dagli argomenti di lui. La teoria sostenuta invece dal Pomponazzi fu che l’immortalità dell’anima non può essere dimostrata in base alla ragione o ad Aristotele, ma va accettata in base alla fede sola”.

27Sulla stessa linea è invece Di Napoli, secondo il quale i dubia nei riguardi della posizione dell’Aquinate sono “veri e propri argomenti contrari” (1963, p. 250).

28  “Non attendevano di più o di meglio gli aristotelici di osservanza averroistica o alessandristica; ma già essi potevano essere soddisfatti dei risultati esegetici del Gaetano sul De anima: in via Aristotelis, checché ne avesse detto Tommaso, non era il caso di parlar più d’immortalità personale” (p. 225).

29  “Il Pomponazzi dà inizio alla trattazione ripetendo il motivo, diventato ormai luogo comune, della medietas dell’uomo. Che il sinolo umano dovesse essere ambivalente, in quanto strutturato di anima e di corpo, poteva pur essere considerato come cosa ovvia, e non era su di esso che cadeva l’attenzione del Pomponazzi; l’ambivalenza o ambiguità egli la trovava nella stessa anima, sia per la compresenza delle funzioni o parti (vegetativo-sensitiva, da una parte, e intellettiva dall’altra) che per le tendenza dell’uomo concretamente attivo; sarebbe l’anima stessa a mostrare, come Giano al dire dei paragoni tradizionali, un duplice volto: mortale e immortale. È evidente che l’anima umana non possa essere insieme mortale e immortale secundum idem; sorge allora il problema: come può l’anima essere insieme mortale e immortale?” (Di Napoli, 1963, p. 245).

30Scrive Pomponazzi: “Preso atto della natura molteplice e ancipite dell’uomo, non della natura che risulta dalla composizione della materia e della forma, ma di quella che è data dalla stessa forma o anima, poiché l’immortale e il mortale sono opposti che non si possono predicare dello stesso soggetto, resta da capire -e qualcuno potrebbe meritatamente metterlo in discussione- com’è possibile che tali opposti si predichino simultaneamente dell’anima umana” (Pomponazzi, 2013, p. 931).

31Le caratteristiche della sostanza aristotelicamente intesa sono: 1. La sostanza è sostrato d’inerenza e di per sé “non inerisce ad altro e non si predica di altro” (Metaph., Z 3, 1029 a 8 s. Metaph., Δ 8, 1017 a 24; Z 13, 1038 b 15); 2. La sostanza esiste separatamente dal resto ed ha una forma di “sussistenza autonoma” (Metaph., Z 3, 1029 a 28; Z 13, 1038 b 23 ss; Z 16, 1040 b 5-8); 3. La sostanza è alcunché di determinato (Metaph., Δ 8, 1017 b 25; Z 3, 1029 a 28; Z 4, 1030 a 3 ss; Z 12, 1037 b 27; Z 15, 1039 a 1 s); 4. La sostanza è alcunché di unitario (Metaph., Z 12, 1037 b 27; 1039 a 3 ss; Z 16, 1040 b 5-10; H 6, passim); 5. La sostanza è atto o in atto (Metaph., H 2, 3, passim). Sul punto si vedano: Aristotele, Metafisica, 2009, pp. XCV-CI; Aristotele, Metafisica, 2011, vol. I, pp. 89-95; Reale, 2006, pp. 77-82; Berti, 2006,pp. 79-99; Reale, 2007, pp. 141-144.

32  “Gli enti costituiti di materia e forma”, spiega M. Zanatta, “sono unitari in virtù della strutturale unità di queste due determinazioni”, cioè la materia e la forma in relazione di potenza ed atto, mentre “gli enti che non hanno materia sono unitari immediatamente» (2011, p. 1231).

33  “La definizione è unitaria perché delle due parti di cui è costituita, vale a dire il genere prossimo e la differenza, il primo è materia e la seconda è forma, e materia e forma, nella cosa, non costituiscono una dualità, ma danno luogo all’unità del sinolo. Così l’uomo non è l’animale e il bipede, ma l’animale-bipede. [...] Insomma, la definizione nelle sue parti è un discorso unitario perché dice che cos’è il definito, e il definito è un’unità di forma e materia, non forma e materia” (nota 80, p. 1228).

34Il gioco dialettico messo in atto da Pomponazzi comincia con una furbesca manifestazione di ammirazione nei riguardi di Tommaso. Ecco cosa scrive il Mantovano all’inizio del quarto capitolo del De immortalitate animae, apprestandosi a confutare la tesi di Averroè: “non intendo addurre nulla di nuovo intorno alla sua falsità, ma soltanto ricondurre il lettore a ciò che S. Tommaso, gloria dei Latini, scrive nell’apposito libro Contra unitatem intellectus, nella prima parte della Summa, nel II Contra Gentiles, nelle Quaestiones disputatae de anima e in molti altri luoghi”. L’ammirazione è dovuta al fatto che Tommaso, nei luoghi citati precisamente da Pomponazzi, effettivamente muove critiche serrate alle tesi antropologiche di tipo dualistico. La stessa ammirazione, però, si trasforma presto nelle pieghe del trattato pomponazziano in leva teoretica per far risaltare la contraddittorietà della posizione tomista.

35Il Responsio di Tommaso della prima quaestio delle Quaestiones disputatae de anima si conclude con questa affermazione: “est quod ipsa est in confinio corporalium et separatarum substantiarum constituta”. La collocazione dell’anima in una terra di confine è, dal punto di vista letterario, una trovata particolarmente efficace. In effetti da questo punto di vista -letterario appunto- non avremmo l’onere di spiegare in che modo effettivamente l’anima umana sia posta in una collocazione mediana in modo non contraddittorio. Dal punto di vista filosofico-antropologico, però, una simile affermazione perde il suo fascino letterario e manifesta tutta la sua carica problematica. In effetti è veramente controintuitivo immaginare in generale una realtà che sia allo stesso tempo immanente e trascendente. Il quadro si aggrava particolarmente quando questa realtà -l’anima umana per l’appunto- viene pensata in relazione sinologica con il corpo. Questo tipo di relazione, infatti, costituisce un orizzonte intrascendibile per ogni principio formale materiale. Tuttavia Tommaso ritiene che questa intrascendibilità non riguarda l’anima dell’uomo che è sì una forma materiale (forma corporis) ma è anche una forma substantialis. Effettivamente questa duplice caratterizzazione dell’anima umana potrebbe dare l’impressione di arbitrarietà (è questa in qualche modo una delle accuse di Pomponazzi), nella misura in cui l’uomo emergerebbe da questa visione antropologica con uno statuto ontologico particolarmente complicato da afferrare, a causa del carattere ‘misto’ delle sue note costitutive. Eppure è questa la grande sfida del pensiero antropologico: comprendere la multidimensionalità dell’uomo adottando una prospettiva complessa ma non contraddittoria.

36Ho preso in prestito le significative espressioni somatizzazione dell’anima e psichicizzazione del corpo da Todisco, 1998, pp. 217-248. Ho utilizzato queste espressioni in modo libero, caricandole cioè di un significato diverso rispetto a quello che ha dato loro Todisco.

37L’anima somatizzata, dunque, non è in grado di produrre operazioni realmente immateriali. Questa conclusione il Mantovano la ritiene provata in base al principio esposto nel De immortalitate animae secondo cui le operazioni di un ente non possono essere più astratte dell’essenza dello stesso ente che le produce (“la sua operazione [scil. dell’intelletto] non può essere più astratta della sua essenza” Trattato sull’immortalità dell’anima, p. 995). Questa ricalibratura in senso materialistico delle possibilità operazionali dell’essere umano è attuata da Pomponazzi sulla base dell’unione sinologica forte tra il principio formale (l’anima) e il principio materiale (corpo). A partire da questa unione, infatti, almeno nella lettura radicale che ne fa Pomponazzi, diventa difficile immaginare la possibilità per l’anima-forma di produrre operazioni che siano di genere diverso (trascendente) rispetto all’orizzonte materiale (nel quale sono immesse le forme sensibili) al quale, in teoria, dovrebbe confinare l’unione sinologica. La parvenza di trascendenza sarebbe prodotta dal fatto che alcune operazioni umane (quelle intellettive) sono - o, meglio, appaiono agli occhi di Pomponazzi - semplicemente come meno materiali essendo meno costrette “dai vincoli e dalle condizioni corporee che caratterizzano le altre facoltà sensibili”. (Petagine, 2010, p. 61)